Amleto - William Shakespeare pt1

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Squall.Leonhart
view post Posted on 26/7/2010, 21:59




PERSONAGGI



CLAUDIO, re di Danimarca

AMLETO, figlio del re defunto, e nipote del presente

FORTEBRACCIO, principe di Norvegia

ORAZIO, amico di Amleto

POLONIO, Lord Ciambellano

LAERTE, suo figlio

VOLTIMANDO, CORNELIO, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, OSRIC: cortigiani

Un Gentiluomo

Un Sacerdote

MARCELLO, BERNARDO: ufficiali

FRANCESCO, soldato

RINALDO, servo di Polonio

Un Capitano

Ambasciatori d'Inghilterra

Attori

Due Villani, Becchini

GERTRUDE, regina di Danimarca, e madre di Amleto

OFELIA, figlia di Polonio

Dame, Gentiluomini, Ufficiali, Soldati, Marinai, Messaggeri e Servitori. Lo Spettro del padre di Amleto







Scena: Elsinore






ATTO PRIMO



SCENA PRIMA - Elsinore. Un terrapieno innanzi al Castello

(FRANCESCO al suo posto di guardia. Entra, verso di lui BERNARDO)


BERNARDO: Chi è là?

FRANCESCO: Anzi, rispondete a me; fermatevi, e svelate chi siete.

BERNARDO: Viva il re!

FRANCESCO: Bernardo?

BERNARDO: Lui.

FRANCESCO: Voi venite assai esattamente alla vostr'ora.

BERNARDO: Son sonate ora le dodici; vattene a letto, Francesco.

FRANCESCO: Molte grazie per questo cambio; fa un freddo pungente ed io mi sento abbattuto.

BERNARDO: Ditemi, avete avuto una tranquilla guardia?

FRANCESCO: Non s'è mosso un topo.

BERNARDO: Bene, buona notte. Se voi incontrate Orazio e Marcello, i compagni della mia vigilia, dite loro d'affrettarsi.



(Entrano ORAZIO e MARCELLO)


FRANCESCO: Mi pare di udirli. Fermatevi, oh! Chi è là?

ORAZIO: Amici di questo paese.

MARCELLO: E vassalli del re di Danimarca.

FRANCESCO: Dio vi dia la buona notte.

MARCELLO: Oh, addio, onesto soldato: chi vi ha dato il cambio?

FRANCESCO: Bernardo ha il mio posto. Dio vi dia la buona notte.



(Esce)


MARCELLO: Olà! Bernardo!

BERNARDO: Dite... che, è Orazio costà?

ORAZIO: Un pezzo di lui.

BERNARDO: Benvenuto, Orazio; benvenuto, buon Marcello.

ORAZIO: Ebbene, quella cosa è apparsa di nuovo stanotte?

BERNARDO: Io non ho visto nulla.

MARCELLO: Orazio dice che non è che la nostra fantasia, e non vuole lasciarsi dominare dalla credenza riguardo a questo orrendo spettacolo, due volte veduto da noi; perciò io l'ho supplicato d'accompagnarci per vegliare con noi i minuti di questa notte, che se di nuovo questa apparizione venisse, egli possa far fede al nostri occhi, e parlarle.

ORAZIO: Via, via, non apparirà.

BERNARDO: Sedetevi un poco; e lasciate che ancora una volta assaliamo i vostri orecchi, che son così fortificati contro la nostra storia, con quel che noi abbiamo veduto due notti.

ORAZIO: Bene, sediamoci, e sentiamo che ce ne dice Bernardo.

BERNARDO: L'ultima notte fra tutte, quando quella medesima stella ch'è a occidente del polo era giunta nel suo corso a illuminare la parte del cielo dove arde adesso, Marcello ed io, la campana allora battendo l'una...



(Entra lo Spettro)


MARCELLO: Zitto; interrompiti; guarda, rieccolo che viene!

BERNARDO: Con lo stesso aspetto, simile al re che è morto.

MARCELLO: Tu sei uomo di lettere; parlagli, Orazio.

BERNARDO: Non assomiglia al re? osservatelo, Orazio.

ORAZIO: Moltissimo; mi rimescola di paura e di stupore.

BERNARDO: Vorrebbe che gli si parlasse.

MARCELLO: Interrogalo, Orazio.

ORAZIO: Chi sei tu che usurpi questo tempo della notte, insieme con quella aitante forma guerriera in cui la maestà del sepolto re di Danimarca marciò una volta? per il cielo io te lo ingiungo, parla!

MARCELLO: E' offeso.

BERNARDO: Vedete, s'allontana a gran passi.

ORAZIO: Resta! parla, parla: io te lo ingiungo parla!



(Esce lo Spettro)


MARCELLO: Se n'è andato, e non vuol rispondere.

BERNARDO: Ebbene, Orazio? voi tremate e impallidite; non è questo qualcosa di più che fantasia? che ne pensate?

ORAZIO: Innanzi al mio Dio, io non avrei potuto crederlo senza la sensibile e vera testimonianza dei miei propri occhi.

MARCELLO: Non assomiglia al re?

ORAZIO: Come tu a te stesso. Tale proprio era l'armatura che egli indossava quando die' battaglia all'ambizioso re di Norvegia; così corrugò le ciglia egli una volta, quando, in un iroso colloquio, abbatté sul ghiaccio i Polacchi nelle loro slitte. E' strano.

MARCELLO: Così già due volte, e proprio a questa morta ora con passo marziale egli è passato innanzi alla nostra guardia.

ORAZIO: Che cosa pensarne precisamente io non so; ma, a quel che posso congetturare, questa cosa presagisce qualche singolare commovimento al nostro stato.

MARCELLO: Di grazia, sediamo, e mi dica chi lo sa, perché questa rigida e attentissima guardia così ogni notte affatica i sudditi del paese, e perché tal cotidiana fusione di cannoni di bronzo, e acquisto d'armamenti su mercati forestieri; perché un tal reclutamento di calafati, la cui faticosa bisogna non distingue la domenica dalla settimana; che cosa possa essere imminente, che questa sudata fretta debba far della notte la compagna di lavoro del giorno; chi è che può informarmi?

ORAZIO: Io lo posso; almeno così se ne sussurra. Il nostro ultimo re, la cui immagine pur ora è apparsa a noi, fu, come voi sapete, da Fortebraccio di Norvegia, a ciò spronato da un invidiosissimo orgoglio, sfidato al combattimento; nel quale il nostro valoroso Amleto (perché tale lo stimava questa parte del nostro mondo conosciuto) uccise questo Fortebraccio; che, per un patto sigillato ben ratificato secondo la legge e la consuetudine araldica, rassegnò, con la sua vita, tutte quelle sue terre di cui egli aveva il possesso, al vincitore; contro le quali, una congrua porzione fu data in pegno dal nostro re, e questa sarebbe passata al retaggio di Fortebraccio, se egli avesse vinto; come, per lo stesso contratto e a tenore dell'articolo designato, la sua toccò ad Amleto. Ora, signore, il giovine Fortebraccio, caldo e pieno di non castigato umore, ha qua e là sui confini della Norvegia trangugiato una torma di arditi senza legge per cibo e vitto ad un'impresa che vuole stomaco; che non è altro (come è ben manifesto al nostro stato) che di riconquistar da noi, per forza di mano e coercizione, quelle sopraddette terre così perdute dal padre suo. E questo, com'io l'intendo, è il principale motivo delle nostre preparazioni, la fonte di questa nostra vigilia, e la prima ragione di questo frettoloso affaccendamento nel paese.

BERNARDO: Io credo che non sia altrimenti che proprio così: ben s'accorda con ciò che questa portentosa figura traversi armata la nostra guardia, così simile al re che fu ed è la causa di queste guerre.

ORAZIO: E' bene un fuscello da turbar l'occhio della mente. Nel più alto e felice Stato di Roma, un poco prima che cadesse il potente Giulio, le tombe restarono vacanti, e i morti nei loro sudari stridettero e squittirono nelle vie di Roma: e proprio un simile precorrimento di fieri eventi, come araldi che sempre precedono i fati e come prologo alla sventura che s'avanza, hanno cielo e terra insieme dimostrato ai nostri climi e ai nostri compatrioti, come le stelle con code di fuoco e rugiade di sangue, maligni aspetti nel sole; e l'umida stella, sull'influenza della quale si fonda l'impero di Nettuno, patì quasi il finimondo per un'eclissi.



(Entra di nuovo lo Spettro)


Ma, piano, guardate! ecco, ritorna! Io gli attraverserò il passo, dovesse anche incenerirmi. Fermati, illusione! (Lo Spettro allarga le braccia) Se tu hai alcun suono od uso di voce, parlami: se vi è alcuna cosa buona da farsi, che possa a te dar conforto e grazia a me, parlami: se tu sei a parte del fato del tuo paese, che, per avventura, il conoscerlo innanzi possa stornare, oh, parla! o se tu hai ammucchiato in vita tesori estorti nel seno della terra, per la qual cosa. dicono, voi spiriti spesso camminate in morte (il gallo canta) parlane: fermati, e parla! Fermalo. Marcello.

MARCELLO: Debbo colpirlo con la mia partigiana?

ORAZIO: Fallo, se non vuol fermarsi.

BERNARDO: E' qui!

ORAZIO: E' qui!

MARCELLO: E' andato! (Esce lo Spettro) Noi gli facciam torto, essendo così maestoso, a far mostra di usargli violenza; poiché esso è, come l'aria, invulnerabile, e i nostri colpi vani una maligna beffa.

BERNARDO: Stava sul punto di parlare quando il gallo ha cantato.

ORAZIO: E allora ha trasalito come un essere colpevole a una spaventosa ingiunzione. Io ho udito che il gallo, ch'è la tromba del mattino, con la sua gola dal suono alto e acuto, risvegli il dio del giorno; e, al suo richiamo, o nel mare o nel fuoco, o in terra o in aria, lo spirito vagante ed errabondo s'affretta al suo confino: e della verità di ciò ha dato la riprova quel che abbiam visto ora.

MARCELLO: Esso è svanito sul cantar del gallo. Alcuni dicono che ogniqualvolta s'approssima la stagione in cui si celebra la nascita del nostro Salvatore, l'uccello dell'alba canta tutta la notte; e allora, dicono, nessuno spirito può muoversi attorno; le notti sono salubri; allora nessun pianeta assidera, nessuna fata incanta, né alcuna strega ha potere d'affatturare, così santo e pieno di grazie è quel tempo.

ORAZIO: Così ho udito anch'io, ed in parte lo credo. Ma guardate, il Mattino, vestito d'un manto rossiccio, cammina sulla rugiada di quell'alto colle volto ad oriente; poniam termine alla nostra guardia; e secondo il mio avviso, comunichiamo quel che abbiamo visto stanotte al giovine Amleto; perché, sulla mia vita, questo spirito, muto per noi, parlerà a lui. Consentite che lo informiamo di questo, come cosa che il nostro amore richiede, e si conviene al nostro dovere?

MARCELLO: Facciamolo, di grazia, ed io stamane so dove lo troveremo più facilmente.



(Escono)






SCENA SECONDA - Una sala di cerimonia nel Castello

(Squillo di tromba. Entrano il RE, la REGINA, AMLETO, POLONIO, LAERTE, VOLTIMANDO, CORNELIO, Signori, e il Seguito)


RE: Benché il ricordo della morte del nostro caro fratello Amleto sia ancora verde e a noi si convenga vestire di cordoglio i nostri cuori, e a tutto il nostro reame contrarsi in un sol cipiglio d'affanno, pure la discrezione ha tanto combattuto con la natura, che noi con più savio dolore pensiamo a lui e insieme ci ricordiamo di noi stessi.

Pertanto la nostra già sorella, ora regina, l'imperiale erede di questo Stato guerriero, noi, per così dire con una sfigurata gioia, con un occhio fausto ed uno lagrimoso, con letizia nei funerali e lamento nelle nozze, in equa bilancia pesando diletto e duolo, l'abbiam presa in moglie: né abbiamo in ciò escluso il vostro miglior senno, col quale avete liberalmente assistito questo negozio: per tutto, le nostre grazie. Ora segue quel che sapete: il giovine Fortebraccio, facendo debole conto del nostro valore, o pensando che per la scomparsa del nostro caro fratello defunto il nostro Stato sia sconnesso e fuor di sesto, associandovi quel ch'egli sogna della sua superiorità, non ha mancato di molestarci con messaggi, che importan la consegna di quelle terre perdute da suo padre, con tutti i termini di legge, in favore del nostro valorosissimo fratello. Tanto per quel che lo riguarda. Ora quanto a noi stessi, e a questa riunione, ecco di che si tratta: noi abbiamo qui scritto al re di Norvegia, zio del giovine Fortebraccio, il quale, impotente e infermo, quasi non si accorge di questo proposito di suo nipote, perché impedisca ch'egli proceda oltre in questa cosa; in quanto le leve, le liste e i pieni quadri, son tutti tratti dai suoi sudditi: e noi qui spediamo voi, buon Cornelio, e voi, Voltimando, come latori di questo saluto al vecchio re di Norvegia, non dando a voi nessun ulteriore potere personale di negoziare col re più di quanto permetta il senso di questi articoli che voi portate. Addio, e che la vostra premura faccia risaltare il vostro ossequio.

CORNELIO e VOLTIMANDO: In questa e in ogni cosa mostreremo il nostro ossequio.

RE: Noi non ne dubitiamo punto: cordialmente addio. (Escono Voltimando e Cornelio) Ed ora, Laerte quali notizie avete voi? Voi ci diceste d'una supplica; che è, Laerte? Voi non potete parlar di ragione al re danese, e perder la vostra voce: che vorresti tu implorare, Laerte, che non sia la mia offerta anzi che la tua richiesta? Il capo non è più imparentato col cuore, la mano più solidale con la bocca, di quel che non sia il trono di Danimarca col padre tuo. Che cosa vorresti, Laerte?

LAERTE: Mio temuto signore, la vostra licenza e il vostro favore per tornare in Francia, donde benché di buon grado io venissi in Danimarca, per rendere il mio omaggio nella vostra incoronazione, pure ora, debbo confessarlo, fatto il mio dovere, i miei pensieri e desideri piegan di nuovo verso la Francia, e s'inchinano alla vostra graziosa licenza e degnazione.

RE: Avete voi licenza da vostro padre? Che dice Polonio?

POLONIO: Egli m'ha, mio signore, strappata la mia riluttante licenza con laboriosa petizione, e finalmente sulla sua volontà ho messo il suggello del mio duro consentimento: io vi supplico, dategli licenza d'andare.

RE: Prendi la tua bella ora, Laerte; il tempo sia tuo e le tue doti migliori lo spendano secondo la tua volontà! Ma ora mio nipote Amleto, e mio fìgliuolo...

AMLETO (a parte): Un po' più che della stessa gente, e men che gentile.

RE: Com'è che siete ancora rannuvolato?

AMLETO: Non così, mio signore; io son troppo nel sole.

REGINA: Buon Amleto, spogliati del tuo notturno colore, fa' che il tuo occhio guardi da amico il re di Danimarca. Non cercar sempre con le tue palpebre abbassate il tuo nobil padre nella polvere; tu sai che è cosa comune, tutto ciò che vive deve morire, passando all'eternità attraverso la natura.

AMLETO: Sì, signora, è cosa comune.

REGINA: Se è tale, perché sembra essa così particolare a te?

AMLETO: Sembra, signora! anzi, è; io non conosco "sembra". Non è soltanto il mio tenebroso mantello, buona madre, né i consueti abiti d'un nero solenne, né il ventoso sospirare d'uno sforzato respiro, no, né il copioso fiume dell'occhio, né l'afflitto portamento del volto, insieme con tutte le forme, i modi, le mostre dell'affanno, che possan fedelmente esprimermi; queste cose davver "sembrano", perché sono azioni che un uomo potrebbe contraffare; ma io ho tal cosa in me che passa ogni mostra; questi non sono più che le gualdrappe e gli abiti del dolore RE: E' dolce cosa e degna d'elogio nella vostra natura, Amleto, il render questo tributo di lutto al padre vostro: ma, voi dovete saperlo, vostro padre perse un padre, quel padre perduto perse il suo; e il sopravvivente è tenuto come obbligo filiale per un certo termine a far esequie di dolore: ma il perseverare in un'ostinata doglianza è un procedere d'empia caparbietà; è un non virile affanno: mostra una volontà molto ribelle al cielo, un cuore non fortificato, un animo impaziente, un intendimento semplice e non disciplinato: perché quel che noi sappiamo dover essere, ed è comune come la cosa più familiare ai sensi, perché dovremmo noi nella nostra petulante opposizione prenderlo a cuore? Ohibò! è una colpa verso il cielo, una colpa contro i morti, una colpa verso la natura, quanto mai assurda verso la ragione, il cui tema usuale è la morte dei padri, e che sempre ha gridato, dal primo cadavere fino a colui che è morto oggi: "Così dev'essere". Noi vi preghiamo, gettate a terra questo inutile affanno, e pensate a noi come ad un padre: perché, che il mondo lo sappia, voi siete il più immediato erede del nostro trono; e con non minore nobiltà d'amore di quella che il più caro padre porta al suo figliuolo, io mi rivolgo a voi. Quanto alla vostra intenzione di ritornare a scuola in Vittemberga, essa è assai contraria ai nostri desideri: e noi vi supplichiamo, piegatevi a rimanere qui sotto la festevolezza e il conforto dei nostri occhi, il nostro primo cortigiano, parente e nostro figlio.

REGINA: Non fare che tua madre perda le sue preghiere, Amleto: ti prego, resta con noi; non andare a Vittemberga.

AMLETO: Io v'obbedirò del mio meglio, signora RE: Bene, è un'amorosa e bella risposta: siate come noi stessi in Danimarca. Signora, venite: questo cortese e spontaneo consentimento d'Amleto porta un sorriso al mio cuore; e in grazia di ciò, nessun giocondo brindisi il re di Danimarca berrà oggi, senza che il grande cannone lo ridica alle nuvole e senza che i cieli rimbombino della regia baldoria, echeggiando il tuono terrestre. Venite via.



(Squilli di tromba. Escono tutti meno Amleto)



AMLETO: Oh! così questa troppo solida carne potesse fondersi, dimoiare e dissolversi in rugiada: o che l'Eterno non avesse stabilito la sua legge contro l'uccisione di sé! O Dio! o dio! come tediosi, vieti, insipidi e non profittevoli sembrano a me tutti gli usi di questo mondo! Come l'ho a schifo! O schifo! è un giardino non sarchiato che va in seme; piantacce andate in rigoglio e grossolane lo posseggono tutto. Che si dovesse venire a questo! Morto da soli due mesi! anzi, non da tanto, nemmeno due: un re così eccellente: ch'era, rispetto a questo, quel ch'è Iperione a un satiro; così amorevole per mia madre, che non poteva permettere che i venti del cielo visitassero troppo rudemente la sua faccia. Cielo e terra! debbo io ricordare? ebbene, ella pendeva da lui, come se il desiderio si fosse accresciuto di ciò di cui si pasceva; e pure, entro un mese! Ch'io non ci pensi:

Fragilità, il tuo nome è donna! Un mesetto! prima che fossero vecchie quelle scarpe con le quali ella seguì il corpo del mio povero padre, come Niobe, tutta lacrime, ebbene lei proprio lei - o Dio! una bestia, a cui manca il discorso della ragione, avrebbe pianto più a lungo - sposata a mio zio, il fratello di mio padre, ma non più simile a mio padre che io ad Ercole. Entro un mese! prima ancora che il sale di quelle inique lagrime avesse lasciato il rossore nei suoi occhi gonfi, ella si è sposata. Oh, malvagia fretta, accorrere così lestamente a lenzuola incestuose! Non è bene e non può venire a bene; ma spezzati, mio cuore, perché io debbo frenare la lingua!



(Entrano ORAZIO, MARCELLO e BERNARDO)


ORAZIO: Salute a Vostra Signoria!

AMLETO: Sono lieto di trovarvi bene: Orazio, o io m'inganno.

ORAZIO: Quello stesso, mio signore, e sempre il vostro povero servitore.

AMLETO: Signore, il mio buon amico; io scambierò quel nome con voi: e che fate voi lontano da Vittemberga, Orazio? Marcello!

MARCELLO: Mio buon signore!

AMLETO: Son molto lieto di vedervi. (A Bernardo) Buona sera, signore.

Ma che cosa, in fede, fate voi lontano da Vittemberga?

ORAZIO: Un umor vagabondo, mio buon signore.

AMLETO: Non vorrei udire il vostro nemico dir così, né farete voi al mio orecchio questa violenza, di fargli credere al vostro proprio rapporto contro voi stesso. Io so che voi non siete un discolo; ma che avete voi a fare in Elsinore? Noi vi insegneremo a bere profondo prima che partiate.

ORAZIO: Mio signore, io venni per vedere i funerali di vostro padre.

AMLETO: Ti prego, non ti far beffe di me, compagno studente, io credo che fu per vedere il matrimonio di mia madre.

ORAZIO: Infatti, mio signore, questo seguì subito dopo.

AMLETO: Economia, economia. Orazio! i pasticci del funerale guarnirono freddi le tavole nuziali. Così avessi io incontrato il mio più cordiale nemico in cielo prima d'aver mai veduto quel giorno, Orazio!

Mio padre... mi pare di veder mio padre.

ORAZIO: O dove, mio signore?

AMLETO: Nell'occhio della mia mente, Orazio.

ORAZIO: Io lo vidi una volta; egli era un bel re.

AMLETO: Egli era un uomo, preso tutto insieme, ch'io non vedrò il suo simile un'altra volta.

ORAZIO: Mio signore, io credo d'averlo veduto iersera.

AMLETO: Veduto? chi?

ORAZIO: Signore, il re vostro padre.

AMLETO: Il re mio padre!

ORAZIO: Temperate il vostro stupore per un po' con un orecchio attento, finché io possa annunziare, sulla testimonianza di questi gentiluomini, questa maraviglia a voi.

AMLETO: Per amor di Dio, fatemi udire.

ORAZIO: Due notti di seguito avevan questi gentiluomini, Marcello e Bernardo, nella loro vigilia nel mezzo del silenzioso deserto della notte, fatto questo incontro: una figura simile a vostro padre, armata di tutto punto, da capo a piè, apparisce a loro, e con solenne andatura passa lenta e maestosa innanzi a loro; tre volte egli ha camminato innanzi ai loro occhi oppressi e sorpresi dalla paura, alla distanza della sua mazza; mentre essi, quasi liquefatti in gelatina per opera della paura, stan muti, e non parlano a lui. Questo a me essi han comunicato in tremenda segretezza; ed io con essi la terza notte ho fatto la guardia, dove, come avevano annunziato tanto per il tempo come per la forma della figura, ogni parola avverata e confermata, viene l'apparizione. Io ho riconosciuto vostro padre; queste mani non sono più simili.

AMLETO: Ma dove è stato questo?

ORAZIO: Mio signore, sul terrapieno dove noi eravamo di guardia.

AMLETO: Voi non le avete parlato?

ORAZIO: Mio signore, io le ho parlato; ma non ha fatto risposta alcuna; pure una volta, mi è parso, ha levato su il capo e dato principio a un movimento, come se volesse parlare; ma proprio allora il gallo mattutino ha cantato forte, e a quel suono essa si è ritratta rapidamente, ed è svanita dal nostro sguardo.

AMLETO: E' molto strano.

ORAZIO: Com'io vivo, mio onorato signore, è vero, e noi abbiamo creduto che fosse scritto nel nostro dovere di farvelo noto.

AMLETO: Davvero, davvero, signori, ma questo mi turba. Montate la guardia stanotte?

MARCELLO e BERNARDO: Sì, mio signore.

AMLETO: Armato, voi dite?

MARCELLO e BERNARDO: Armato, mio signore.

AMLETO: Dalla testa al calcagno?

MARCELLO e BERNARDO: Mio signore, da capo a piedi.

AMLETO: Allora non avete veduto la sua faccia?

ORAZIO: Oh, sì, mio signore; egli portava la visiera alzata.

AMLETO: E che, aveva uno sguardo corrucciato?

ORAZIO: Un volto più addolorato che iroso.

AMLETO: Pallido o rosso?

ORAZIO: Anzi, pallidissimo.

AMLETO: E fissava gli occhi su di voi?

ORAZIO: Continuamente.

AMLETO: Così foss'io stato là!

ORAZIO: Vi avrebbe assai sbigottito.

AMLETO: Molto probabilmente, molto probabilmente. Si è fermato a lungo?

ORAZIO: Tanto che si sarebbe potuto contare con moderata fretta fino a cento.

MARCELLO e BERNARDO: Di più, di più.

ORAZIO: Non quando l'ho visto io AMLETO: La sua barba era brizzolata? no?

ORAZIO: Era, com'io l'ho veduta mentre viveva, d'un nero argentato AMLETO: Io veglierò stanotte; forse camminerà di nuovo.

ORAZIO: Io garantisco di sì.

AMLETO: Se esso assumerà la persona del mio nobile padre, io gli parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere. Io prego voi tutti, se avete finora tenuta celata questa vista, fate che sia serbata nel vostro silenzio ancora; e qualunque altra cosa accadesse questa notte, prestate ad essa comprensione, ma non lingua: io ripagherò il vostro amore. Così statevi bene: sul terrapieno, tra le undici e le dodici, verrò a visitarvi.

TUTTI: Il nostro omaggio a Vostra Signoria.

AMLETO: Il vostro amore, come il mio a voi addio. (Escono Orazio, Marcello e Bernardo) Lo spirito del padre mio in armi! non tutto è bene; io sospetto qualche iniquità: così la notte fosse già venuta!

Fin allora tienti tranquilla, anima mia: le turpi azioni risorgono, benché tutta la terra le sopraffaccia, agli occhi degli uomini.



(Esce)






SCENA TERZA - Una stanza nella casa di Polonio

(Entrano LAERTE ed OFELIA)


LAERTE: Il mio bagaglio è imbarcato; addio; e, sorella, quando i venti sian favorevoli e ci sia un convoglio a disposizione, non dormite ma fatemi aver vostre notizie.

OFELIA: Ne dubitate?

LAERTE: Quanto ad Amleto, e a questo scherzo del suo favore, tenetelo per una galanteria, e un capriccio del sangue, una violetta nella giovinezza della natura primaverile, precoce, non permanente, dolce, non duratura, il profumo e il sollazzo d'un istante; non più.

OFELIA: Non più di questo?

LAERTE: Non lo stimate di più: perché la natura in crescenza non cresce soltanto di nerbo e di mole; ma, come questo tempio s'espande, il servizio interiore della mente e dell'anima si fa insieme più vasto. Forse egli vi ama ora, ed ora nessuna macchia o frode lorda la sua virtuosa volontà; ma voi dovete temere, considerata la sua grandezza, che la sua volontà non gli appartenga; poiché egli stesso è soggetto alla sua nascita; egli non può, come fan le persone dappoco, fare a suo piacimento, perché dalla sua scelta dipende la salvezza e il benessere di tutto questo Stato, e pertanto la sua scelta deve essere subordinata alla voce e al consenso di quel corpo di cui egli è il capo. Dunque se egli dice che v'ama, conviene alla vostra saggezza crederlo secondo che egli nella sua particolare operazione e posizione possa fare della sua parola un fatto; che non è oltre quanto la voce universale di Danimarca vi s'accordi. Dunque pesate qual perdita il vostro onore potrebbe sostenere se con troppo credulo orecchio date ascolto alle sue canzoni, o perdete il vostro cuore, o aprire il vostro casto tesoro alla sua sfrenata sollecitazione. Temetelo, Ofelia, temetelo, mia cara sorella, e tenetevi alla retroguardia dei vostri affetti, fuori dal tiro e dal pericolo del desiderio. La più modesta fanciulla è prodiga abbastanza, se ella smaschera la sua bellezza alla luna; la stessa virtù non sfugge ai colpi della calunnia; il verme guasta i figliuoli della primavera troppo spesso innanzi che i loro boccioli sian dischiusi, e nel mattino e nella liquida rugiada della giovinezza più sovrasta la minaccia d'influssi contagiosi. Siate cauta dunque; la miglior salvezza sta nella paura:

la giovinezza concupisce se stessa anche se nessun altro sia vicino.

OFELIA: Io terrò la sostanza di questa buona lezione, come guardiana del mio cuore. Ma, mio buon fratello, non mi mostrate, come fanno certi sgraziati pastori, l'erta e spinosa via del cielo, mentre come un tronfio e temerario libertino, egli stesso calca il fiorito sentiero dei godimenti e non bada al suo proprio consiglio.

LAERTE: Oh, non temete per me.



(Entra POLONIO)


Io m'indugio troppo; ma ecco viene mio padre. Una doppia benedizione è una doppia grazia; l'occasione arride a un secondo commiato.

POLONIO: Ancora qui, Laerte? a bordo, a bordo, vergogna! Il vento siede sulla spalla della vostra vela, e per voi s'attende. Ecco la mia benedizione a te! E vedi d'imprimere questi pochi precetti nella tua memoria. Non dar voce ai tuoi pensieri, né la tua azione ad alcun pensiero smisurato. Sii tu familiare, ma per nessun conto volgare; quegli amici che tu hai, e di cui hai provato l'adozione, agganciali alla tua anima con uncini d'acciaio ma non t'intorpidire la palma intrattenendo ogni implume camerata col guscio in capo. Guardati dall'entrare in una lite, ma, essendovi, conducila così che il tuo avversario debba guardarsi da te. Da' ad ognuno il tuo orecchio, ma a pochi la tua voce, accogli l'opinione d'ognuno ma riserva il tuo giudizio. Prezioso il tuo abito quanto la tua borsa può comprarlo ma non stravagante; ricco, ma non vistoso; perché l'abbigliamento spesso rivela l'uomo; e in Francia le persone di più alto rango e posizione sono assai distinte e generose, specie in questo. Non far debiti e non prestar denaro; perché un prestito spesso perde se stesso e l'amico e il far debiti fa perdere il filo all'economia. Questo sopra tutto: a te stesso sii fedele, e deve seguirne, come la notte al giorno, che tu non puoi allora esser falso per nessuno. Addio: la mia benedizione faccia maturare in te questi consigli!

LAERTE: Umilissimamente prendo il mio commiato, mio signore.

POLONIO: Il tempo v'invita; andate, i vostri servi attendono.

LAERTE: Addio, Ofelia, e ricordate bene quello ch'io v'ho detto.

OFELIA: E' serrato nella mia memoria, e voi stesso ne terrete la chiave.

LAERTE: Addio.



(Esce Laerte)


POLONIO: Che è, Ofelia, ch'egli v'ha detto?

OFELIA: Piacendo a voi, qualcosa riguardo al principe Amleto.

POLONIO: Diamine, ben pensato: mi si dice che sull'ultimo egli si è trattenuto privatamente con voi assai spesso, e voi stessa siete stata assai libera e generosa della vostra udienza: s'egli è così (poiché così mi si dà a credere, e questo in via di ammonimento), io debbo dirvi che non comprendete voi stessa così chiaramente quel che s'addice alla mia figliuola e al vostro onore. Che c'è fra voi?

confidatemi la verità.

OFELIA: Egli ha, mio signore, ultimamente fatto molte profferte del suo affetto verso di me.

POLONIO: Affetto! puh! voi parlate come una ragazza ingenua, non esperta di così pericolose circostanze. Credete voi alle sue profferte, come voi le chiamate?

OFELIA: Io non so, mio signore, che cosa pensare.

POLONIO: Diamine, v'insegnerò io: consideratevi una bambina. che avete preso queste profferte, che non son di zecchino, per buon pagamento.

Tenetevi da conto più caramente; o (per non togliere il fiato alla povera frase, facendola correr tanto) voi mi profferirete un grosso.

OFELIA: Mio signore, egli mi ha mostrato il suo amore in maniera onorevole.

POLONIO: Sì, potete chiamarla una mostra; andate, andate.

OFELIA: E ha confortato il suo discorso, mio signore, con quasi tutti i santi voti del cielo.

POLONIO: Sì, laccioli da acchiappar merli. Io so, quando il sangue arde, come è prodiga l'anima a prestar voti alla lingua: queste fiammate, figlia, che dan più luce che calore, estinte in ambedue, nella loro stessa promessa, mentre la si fa, non dovete prenderle per fuoco. D'ora innanzi siate un po' più avara della vostra virginea presenza; ponete i vostri trattenimenti a un prezzo più alto che un ordine d'udienza. Quanto al principe Amleto, credete in lui non più di questo: ch'egli è giovine, e può camminare con un più lungo guinzaglio di quel che possa darsi a voi: in breve, Ofelia, non credete ai suoi voti; ché son mezzani, non di quella tinta che le loro vesti mostrano, ma semplici supplicatori di profani amoreggiamenti, che spirano come santi e pii legami, per invescar meglio. Insomma: io non vorrei, in chiari termini, da ora in avanti, che voi così diffamaste, sia pure l'agio d'un momento, da dar parole, o conversare col principe Amleto.

Badateci, ve lo comando; venite via.

OFELIA: Obbedirò, mio signore.



(Escono)






SCENA QUARTA - Il terrapieno

(Entrano AMLETO, ORAZIO e MARCELLO)


AMLETO: L'aria taglia di buono; fa molto freddo.

ORAZIO: E' un'aria aspra e frizzante.

AMLETO: Che ora è adesso?

ORAZIO: Credo che non siano le dodici.

MARCELLO: No, son sonate.

ORAZIO: Davvero? io non le ho udite: allora s'avvicina il tempo, in cui lo spirito era solito andar attorno. (Uno squillo di trombe e due cannoni sparano, al di dentro) Che vuol dir questo, mio signore?

AMLETO: Il re veglia stanotte e tien la sua gozzoviglia, fa lo stravizio, e balla il dondolante saltinsù; e come egli tracanna i suoi sorsi di vin del Reno, il tamburo e la tromba così sbraitano il trionfo dei suoi brindisi.

ORAZIO: E' questa l'usanza?

AMLETO: Sì, perdio, è questa; ma al mio parere, benché io sia nativo di qui, e uso a questi modi fin dalla nascita, è un'usanza meglio onorata con l'infrangerla che con l'osservarla. Queste orge che intontiscono fan di noi a oriente e a occidente la favola e il ludibrio delle altre nazioni; ci chiamano ubriaconi, e con una sozza parola macchiano il nostro epiteto; e davvero ciò toglie alle nostre imprese, benché compiute eccellentemente, il nerbo e il midollo della nostra reputazione. Così spesso accade in certi uomini, che per qualche maligno neo di natura in essi, come, nella loro nascita, in cui non han colpa (poiché la natura non può scegliere la propria origine), per l'eccessivo sviluppo di qualche umore, che spesso abbatte gli steccati e i baluardi della ragione, o per qualche abito che dà troppo risalto alla forma delle maniere ben accette, che questi uomini, portando, dico, il marchio d'un sol difetto, che sia la livrea della natura, o la stella della fortuna, tutte le altre loro virtù, sian esse pure come la grazia, infinite per quanto l'uomo n'è capace, nella generale opinione saran corrotte da quel particolare mancamento:

una dramma di male riduce tutto ciò che è nobile, per un sospetto, alla sua propria infamia.



(Entra lo Spettro)


ORAZIO: Guardate, mio signore, viene!

AMLETO: Angeli e ministri della grazia, difendeteci! Sia tu uno spirito salvato o un folletto dannato, porti con te aure dal cielo o raffiche dall'inferno, siano le tue intenzioni malvagie o caritatevoli, tu vieni in aspetto così accostabile ch'io voglio parlarti: io ti chiamerò Amleto, re, padre, re di Danimarca: oh, rispondimi! non mi lasciar scoppiare nell'ignoranza; ma di' perché le tue ossa consacrate, composte nella morte, hanno lacerato le loro bende funebri, perché il tuo sepolcro, in cui noi ti vedemmo quietamente deposto, ha aperto le sue ponderose mascelle marmoree, per ributtarti su. Che può significare questo, che tu, morto cadavere, di nuovo, tutto in acciaio, rivisiti così i bagliori della luna, facendo la notte spaventosa; e che noi zimbelli della natura così orribilmente scotiamo la nostra fibra con pensieri di là dai limiti delle nostre anime? Di', perché è questo? a che fine? che dovremmo noi fare?



(Lo Spettro fa cenno ad Amleto)


ORAZIO: Vi fa cenno d'andar via con lui, come se desiderasse comunicare qualcosa a voi solo.

MARCELLO: Guardate, con che cortese gesto vi invita ad un luogo più remoto: ma non andate con lui.

ORAZIO: No, in nessun modo.

AMLETO: Non vuol parlare; dunque io lo seguirò.

ORAZIO: Non lo fate, mio signore.

AMLETO: Perché, che dovrei temere? io non pongo la mia vita al prezzo d'una spilla; e quanto alla mia anima, che può egli farle, dacché è una cosa immortale come lui? Mi fa cenno d'avanzare di nuovo; io lo seguirò.

ORAZIO: E che, se vi tentasse verso il flutto, mio signore, e all'orrida sommità della roccia che s'aggrotta sulla sua base entro il mare, e quivi assumesse qualche altra orribile forma, capace di spodestare la sovranità della vostra ragione, e di trarvi alla pazzia?

pensateci: il luogo stesso mette estri di disperazione, senz'alcun altro motivo, in ogni cervello che guardi da tante braccia nel mare e l'oda ruggire di sotto.

AMLETO: Mi fa cenno ancora. Va' innanzi; io ti seguirò.

MARCELLO: Voi non andrete, mio signore.

AMLETO: Giù le mani!

ORAZIO: Lasciatevi convincere; voi non dovete andare.

AMLETO: Il mio fato grida forte, e fa ogni minuta arteria in questo corpo vigorosa come il nerbo del leone nemeo. Ancora mi si chiama?

Lasciatemi, signori; per il cielo, io farò un fantasma di colui che mi trattiene: via, dico! Va' innanzi; io ti seguirò.



(Escono lo Spettro ed Amleto)


ORAZIO: Egli divien forsennato per immaginazione.

MARCELLO: Seguiamolo; non è bene obbedirlo così.

ORAZIO: Andiamogli appresso. A che fine verrà questo?

MARCELLO: V'è qualcosa di putrido nello Stato di Danimarca.

ORAZIO: Il cielo lo guiderà.

MARCELLO: Però, seguiamolo.



(Escono)






SCENA QUINTA - Un'altra parte del terrapieno

(Entrano lo Spettro ed AMLETO)


AMLETO: Dove vuoi tu condurmi? parla; io non verrò più innanzi.

SPETTRO: Stammi attento.

AMLETO: Ci starò.

SPETTRO: La mia ora è quasi giunta, in cui io debbo consegnarmi alle sulfuree fiamme tormentatrici.

AMLETO: Ahimè, povero fantasma!

SPETTRO: Non mi compatire, ma presta seriamente ascolto a ciò ch'io svelerò.

AMLETO: Parla; t'ascolto con impegno.

SPETTRO: E così sei impegnato a vendicarmi, quando avrai ascoltato.

AMLETO: Che cosa?

SPETTRO: Io sono lo spirito di tuo padre; dannato per un certo termine a camminar la notte e per il giorno confinato a digiunare nel fuoco, finché i turpi delitti commessi nei miei giorni di natura siano arsi e purgati. Se non mi fosse vietato di narrare i segreti della mia prigione, io potrei svelare una storia la cui più lieve parola ti strazierebbe l'anima, agghiaccerebbe il tuo giovine sangue e farebbe i tuoi due occhi, come stelle, balzare dalle loro orbite, le tue ciocche annodate e intricate dividersi, e ogni singolo capello rizzarsi, come gli aculei sull'irritabile istrice: ma questa divulgazione dell'eternità non dev'essere per orecchi di carne e sangue. Ascolta, ascolta, oh, ascolta! Se tu hai amato mai il tuo caro padre...

AMLETO: O Dio!

SPETTRO: Vendica il suo infame e snaturato assassinio.

AMLETO: Assassinio?

SPETTRO: Assassinio oltremodo infame, com'è nel miglior caso, ma in questo oltremodo infame, strano, e snaturato.

AMLETO: Affrettati a farmelo conoscere, ch'io con ali rapide come la meditazione, o i pensieri d'amore, possa scattare alla mia vendetta.

SPETTRO: Io ti trovo disposto; e più insensibile tu dovresti essere della grassa erba che si infracida a suo agio sulla riva di Lete, se tu non t'agitassi per questa cosa. Ora Amleto, odi: s'è propalato che, dormendo io nel mio giardino, un serpente mi punse; così tutto l'orecchio di Danimarca è da un falso racconto della mia morte sconciamente ingannato; ma sappi, tu nobile giovine, il serpente che punse la vita di tuo padre ora porta la sua corona.

AMLETO: O mia profetica anima! Mio zio?

SPETTRO: Sì, quella incestuosa, quell'adultera bestia, con la malìa del suo ingegno, con doti traditrici - o malvagio ingegno e malvagie doti, che han potere di così sedurre! - conquise alla sua vergognosa libidine la volontà della mia regina così piena di virtù apparente: o Amleto, che caduta fu quella! da me - il cui amore era di tanta dignità che andava tenendosi per mano col voto stesso ch'io feci a lei nel matrimonio - abbassarsi a un miserabile, i cui doni naturali eran poveri al paragone dei miei! Ma come la virtù mai non si lascia muovere benché la licenza la corteggi in forma celeste, così la libidine, benché congiunta a un angelo fulgente, farà crapula in un letto celestiale, e si rinzepperà di lordure! Ma, adagio! mi pare d'odorar l'aria mattutina, ch'io sia breve. Dormendo io nel mio giardino, com'era sempre mio costume nel pomeriggio, nell'ora in cui ero senza sospetto, tuo zio s'insinuò, col sugo del maledetto tasso in una fiala, e nelle conche de' miei orecchi versò quella lebbrosa distillazione; il cui effetto è tanto nemico al sangue dell'uomo che rapido come l'argento vivo percorre le porte e i tramiti naturali del corpo; e con subitaneo vigore rapprende e caglia, come gocce d'acido nel latte, il sangue limpido e sano: così fece del mio, e un'istantanea scabbia incrostò, a guisa di Lazzaro, con una trista e schifosa squama tutto il mio liscio corpo. Così, dormendo, dalla mano d'un fratello io fui tutt'insieme privato della vita, della corona, della regina, reciso proprio in sul fiore dei miei peccati, non comunicato, impreparato, senza l'estrema unzione; senza aver fatto computo alcuno, ma mandato a rendere i miei conti con tutte le mie imperfezioni sul mio capo: oh, orribile! oh, orribile! quanto orribile! Se hai in te natura, non lo sopportare, non lasciare che il regio letto di Danimarca sia il giaciglio della lussuria e del dannato incesto. Ma, comunque tu persegua quest'atto, non ti macchiare l'animo, né far che il tuo spirito disegni contro tua madre cosa alcuna; lasciala al cielo, e a quelle spine che nel suo seno albergano, per pungerla e trafiggerla. Addio senz'altro! La lucciola mostra che il mattino è prossimo, e incomincia a smorzare il suo fuoco inefficace, addio, addio! ricordati di me.



(Esce. Amleto cade in ginocchio)


AMLETO: O voi tutte, legioni del cielo! o terra! che più? e aggiungerò l'inferno? oh, vergogna! Reggi, reggi, mio cuore; e voi miei nervi, non invecchiate all'improvviso, ma tenetemi su rigido. (Si alza) Ricordarmi di te? Sì, tu povero fantasma, finché la memoria tien seggio in questo globo impazzito. Ricordarmi di te? Sì, dalla tavola della mia memoria io cancellerò tutti i ricordi triviali e frivoli, tutti i detti dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni passate, che la giovinezza e l'osservazione copiarono quivi; e il tuo comandamento tutto solo vivrà nel libro e nel volume del mio cervello, non commisto a più vile materia; sì, per il cielo! O perniciosissima donna! o scellerato, scellerato, sorridente, maledetto scellerato! le mie tavolette... è bene ch'io metta giù questo, che uno può sorridere, e sorridere, ed essere uno scellerato; almeno son sicuro che può essere così in Danimarca. (Scrive) Così, zio, lì voi siete. Ora al mio motto; è: "addio, addio! ricordati di me". Io l'ho giurato.

ORAZIO e MARCELLO (di dentro): Mio signore, mio signore!



(Entrano ORAZIO e MARCELLO)


ORAZIO: Principe Amleto!

MARCELLO: Il cielo lo protegga!

AMLETO: Così sia!

ORAZIO: Alò, oh, oh, mio signore!

AMLETO: Alò, oh, oh, ragazzo! vieni, uccello, vieni!

MARCELLO: Come va, mio nobile signore?

ORAZIO: Che notizie mio signore?

AMLETO: Oh, meravigliose!

ORAZIO: Mio buon signore, ditele.

AMLETO: No, voi le rivelerete.

ORAZIO: Non io, mio signore, per il cielo!

MARCELLO: Né io, signore.

AMLETO: Che dite voi, dunque; potrebbe cuore d'uomo mai pensarlo? Ma voi terrete il segreto?

ORAZIO e MARCELLO: Sì, per il cielo, mio signore.

AMLETO: Non v'è un sol furfante in tutta la Danimarca che non sia un briccone matricolato.

ORAZIO: Non c'è bisogno che un fantasma, signore, venga dalla tomba per dirci questo.

AMLETO: Bene, giusto; voi siete nel giusto; e così, senza più alcuna circonlocuzione, io stimo conveniente che ci stringiamo la mano e ci separiamo; voi, come le vostre faccende e i vostri desideri vi guideranno; poiché ogni uomo ha faccende e desideri, quali che si siano; e, per la mia povera parte, guardate, io andrò a pregare.

ORAZIO: Questa non è che una ridda di parole forsennate, mio signore.

AMLETO: Mi duole che vi offendano, di cuore; sì, in fede, di cuore!

ORAZIO: Non v'è offesa, mio signore.

AMLETO: Sì, per San Patrizio che v'è, Orazio, e grave offesa anche.

Riguardo a questa visione qui, è un onesto fantasma, lasciate ch'io ve lo dica, quanto al vostro desiderio di sapere che cosa c'è fra di noi, dominatelo come potete. Ed ora buoni amici da quegli amici, da studiosi e soldati che siete, accordatemi una povera richiesta.

ORAZIO: Che cosa è, mio signore? noi lo faremo.

AMLETO: Non fate mai noto quel che avete veduto questa notte.

ORAZIO e MARCELLO: Mio signore, non lo faremo.

AMLETO: Sì, ma giuratelo.

ORAZIO: In fede, mio signore, non io.

MACELLO: Né io, mio signore, in fede.

AMLETO: Sulla mia spada.

MARCELLO: Noi abbiamo già giurato, mio signore.

AMLETO: Davvero, sulla mia spada, davvero.



(Lo Spettro grida sotto la scena)


SPETTRO: Giurate.

AMLETO: Ah, ah, giovanotto! dici così? sei tu costà, galantuomo?

Andiamo; voi udite questo buon uomo in cantina; consentite a giurare.

ORAZIO: Proponete il giuramento, mio signore.

AMLETO: Di non mai parlare di questo che voi avete veduto, giurate per la mia spada.

SPETTRO: Giurate.

AMLETO: "Hic et ubique"? allora noi muteremo luogo. Venite qui, gentiluomini, e ponete le vostre mani di nuovo sulla mia spada:

giurate per la mia spada, di non mai parlare di questo che voi avete udito.

SPETTRO: Giurate per la spada.

AMLETO: Ben detto, vecchia talpa! puoi scavar nella terra così presto?

un bravo zappatore! Ancora una volta allontaniamoci, buoni amici.

ORAZIO: O giorno e notte, ma questo è meravigliosamente strano!

AMLETO: E perciò come a straniero dategli il benvenuto. Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia. Ma venite; qui, come dianzi, mai, così la grazia vi assista, per strano o bizzarro che sia il mio comportamento - com'io forse d'ora in poi crederò conveniente affettare un umore fantastico - giammai, vedendomi in tali momenti non dovete, con le braccia così intrecciate o questo scuoter del capo, o col pronunciare qualche frase dubbiosa, come "Bene, bene noi sappiamo", o "Noi potremmo, se volessimo", o "Se ci piacesse di parlare", o "Ce n'è, se potessero", o simili espressioni ambigue, dar a vedere che voi sappiate cosa alcuna di me: di non far questo, così grazia e misericordia v'assistano quando più occorra, giurate.

SPETTRO: Giurate.

AMLETO: Riposa, riposa, turbato spirito! (Giurano) Così, signori, con tutto il mio amore a voi mi raccomando, e quel che un così pover uomo com'è Amleto può fare, per esprimere il suo amore e la sua amicizia per voi, Dio volendo, non mancherà. Entriamo insieme; e sempre il dito sulle labbra, prego. I tempi sono scombinati: o maledetta ùggia, che mai io debba essere nato per rimetterli in sesto! Su, venite, andiamo insieme.



(Escono)






ATTO SECONDO



SCENA PRIMA - Una stanza nella casa di Polonio

(Entrano POLONIO e RINALDO)


POLONIO: Dategli questo danaro e questi fogli, Rinaldo.

RINALDO: Lo farò, mio signore.

POLONIO: Voi farete cosa saggia a maraviglia, buon Rinaldo prima di visitarlo, informandovi del suo comportamento.

RINALDO: Mio signore, tale era la mia intenzione.

POLONIO: Voi farete cosa saggia a maraviglia, buon Rinaldo, prima di visitarlo, informandovi del suo comportamento.

RINALDO: Mio signore, tale era la mia intenzione.

POLONIO: Diamine, ben detto, assai ben detto. Guardate, messere, fatemi inchiesta prima di quali danesi siano in Parigi; e come, e chi, quali mezzi, e dove stanno, quale brigata, con che spese; e trovando con dimandare così all'intorno e sulle generali, ch'essi conoscono mio figlio, fatevi più da presso di quanto le vostre particolari domande possano giungere; assumete, per così dire, una remota conoscenza di lui, come "Io conosco suo padre, e i suoi amici, e in parte lui". Fate attenzione a questo, Rinaldo?

RINALDO: Sì, assai bene, mio signore.

POLONIO: "E in parte lui, ma - potete dire - non bene: ma se gli è quello che io intendo, egli è assai sfrenato, dedito" così e così, e lì attribuitegli quali falsità vi piaccia; diamine, nessuna così turpe che possa disonorarlo; badate a questo; ma, messere, di tali lascivi, sfrenati e consueti trascorsi che son compagni notori e ben conosciuti della giovinezza e della libertà.

RINALDO: Come giocare, mio signore.

POLONIO: Sì, o bere, far di scherma, bestemmiare, rissare, andare a donne; potete giungere fin là.

RINALDO: Mio signore, questo lo disonorerebbe.

POLONIO: In fede, no; ché voi potete temperarlo nell'accusa. Voi non dovete apporgli un alto scandalo, ch'egli sia soggetto all'incontinenza; questo non è quel ch'io intendo; ma sussurrate i suoi difetti con tale tatto ch'essi possan sembrare le mende della libertà, la vampa e l'eruzione d'un animo infocato, una selvatichezza in sangue non mansuefatto, che assale quasi ognuno RINALDO: Ma, mio buon signore...

POLONIO: Perché dovreste far ciò?

RINALDO: Già, mio signore, questo io vorrei sapere.

POLONIO: Affé, messere, ecco il mio disegno, e io la credo un'astuzia garantita; voi apponendo queste lievi macchie al mio figliuolo, come fosse una cosa un po' sporcata mentre la si lavorava (badate bene) il vostro interlocutore, quegli che voi vorreste sondare, se ha mai veduto il giovine di cui voi mormorate colpevole dei prenominati delitti, siate sicuro ch'egli attacca con voi nel modo seguente: "Buon signore", o così, o "amico", o "gentiluomo", a seconda dell'epiteto, o del titolo dell'uomo e del paese RINALDO: Benissimo, mio signore.

POLONIO: E poi, messere, fa egli questo? Egli... che cosa stavo dicendo? Per la messa, io stavo per dir qualche cosa: dove ho lasciato?

RINALDO: A "attacca con voi nel modo seguente", a "amico, o così", e "gentiluomo".

POLONIO: A "attacca con voi nel modo seguente", sì, perdio, egli attacca con voi così: "Io conosco quel gentiluomo; o l'ho veduto ieri, o l'altro giorno, o allora, o allora, coi tali e tali, e come voi dite, là stava giocando, là còlto a gozzovigliare, la rissando alla pallacorda"; o forse "Io l'ho veduto entrare nella tal casa di vendita", 'id est', un bordello, e così via. Vedete ora; la vostra esca di falsità piglia questo carpione di verità; e così noi gente savia e preveggente, per vie tortuose e con assaggi di sbieco, indirettamente scopriamo le direzioni: così, secondo il mio precedente discorso e consiglio, voi farete del mio figliuolo. Voi m'avete capito, no?

RINALDO: Mio signore, sì POLONIO: Dio sia con voi; statevi bene.

RINALDO: Mio buon signore!

POLONIO: Osservate la sua disposizione da voi stesso.

RINALDO: Lo farò, mio signore.

POLONIO: E lasciate che attenda alla sua musica.

RINALDO: Bene, mio signore.

POLONIO: Statevi bene.



(Esce Rinaldo. Entra OFELIA)

continua..
 
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