Amleto - William Shakespeare pt2

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Squall.Leonhart
view post Posted on 26/7/2010, 21:57




continuo..


Ebbene, Ofelia, che c'è?

OFELIA: Oh, mio signore, mio signore, ho preso tanta paura!

POLONIO: Di che, in nome di Dio?

OFELIA: Mio signore, mentre io cucivo nella mia stanzetta, il principe Amleto, col giustacuore tutto slacciato, senza cappello in testa, le calze sporche, slegate, e cascanti come ceppi alle caviglie, pallido come la sua camicia, le ginocchia battenti l'una contro l'altra, e con uno sguardo di così pietosa espressione come s'egli fosse stato liberato dall'inferno per parlare di orrori, mi viene davanti.

POLONIO: Pazzo per amor tuo?

OFELIA: Mio signore, non so, ma veramente lo temo POLONIO: Che ha detto?

OFELIA: Egli mi ha presa per il polso, e mi ha tenuta forte; poi s'allontana della lunghezza di tutto il suo braccio, e, con l'altra mano così sopra la fronte, si pone a esaminare la mia faccia come se volesse disegnarla. A lungo è stato così; da ultimo, un poco scotendomi il braccio, e tre volte col capo accennando in su e in giù cosi, egli ha levato un sospiro così pietoso e profondo che pareva spezzargli tutta la persona e finire l'essere suo; ciò fatto, egli mi lascia e col capo rivolto sopra la sua spalla è parso trovare la sua strada senza gli occhi; perché è andato fuori di casa senza il loro aiuto, e fino all'ultimo ha fissato la loro luce su di me.

POLONIO: Orsù, vieni con me; andrò a cercare il re. Questa è la vera frenesia d'amore, la cui violenta qualità distrugge se stessa e conduce la volontà a disperate imprese, così spesso come qualsiasi passione sotto il cielo che affligge la nostra natura. Mi duole... e che, gli avete voi dato qualche parola dura ultimamente?

OFELIA: No, mio buon signore, ma, come voi comandaste, io respinsi le sue lettere e gli negai l'accesso a me.

POLONIO: Questo lo ha fatto impazzire. Mi duole che con miglior cura e giudizio io non l'abbia osservato: io temevo ch'egli non facesse che scherzare, e intendesse rovinarti: maledetta la mia gelosia! Per il cielo, egli è così proprio della nostra età l'andare oltre il segno nelle nostre opinioni, com'è comune per i più giovani il mancar di discernimento. Vieni, andiamo dal re: questa cosa dev'esser conosciuta; la quale, tenuta segreta, potrebbe produrre più dolore a nascondere, che odio a rivelare l'amore. Vieni.



(Escono)






SCENA SECONDA - Una stanza nel Castello

(Squillo di tromba. Entrano il RE, la REGINA, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, e il Seguito)


RE: Benvenuti, cari Rosencrantz e Guildenstern! Oltre che noi molto bramavamo di vedervi, il bisogno che noi avevamo dei vostri servigi è stato causa del nostro affrettato richiamo. Qualche cosa voi avete udito della trasformazione di Amleto; così chiamatela, poiché né l’uomo esterno né l'interiore assomiglia a ciò ch'egli fu. Che cosa possa essere, più della morte dl suo padre, che così l'abbia distolto di tanto dall'intendimento di se stesso, io non so immaginare: io supplico voi due, che essendo stati da così giovine età allevati con lui, e da allora così vicini alla sua giovinezza e ai suoi umori, vi degniate soggiornare qui alla nostra corte per un po' di tempo; per così con la vostra compagnia attrarlo ai piaceri, e per raccogliere, per quanto vi si porga occasione di spigolare, se cosa alcuna a noi ignota l'affligga così, la quale, rivelata, sia in nostro potere di rimediare.

REGINA: Buoni gentiluomini, egli ha molto parlato di voi, e io son sicura che non vivono due uomini ai quali egli sia più legato. Se vi piacerà di mostrare tanta cortesia e buona volontà da spendere il vostro tempo con noi per un po' in soccorso e per vantaggio della nostra speranza, la vostra visita riceverà tali grazie quali si convengono alla memoria d'un re.

ROSENCRANTZ: Ambo le vostre maestà potrebbero per il sovrano potere che voi avete su di noi, porre il vostro temuto piacere più in un comando che in una supplica.

GUILDENSTERN: Ma noi entrambi obbediamo, e qui dedichiamo noi stessi, con la piena intenzione di porre i nostri servigi ai vostri piedi, per esser comandati.

RE: Grazie, Rosencrantz e gentile Guildenstern.

REGINA: Grazie, Guildenstern e gentile Rosencrantz; ed io vi supplico di visitare immediatamente il mio troppo mutato figliuolo. Andate, qualcuno di voi, e conducete questi gentiluomini dov'è Amleto.

GUILDENSTERN: I cieli faccian la nostra presenza e i nostri atti piacevoli e giovevoli a lui!

REGINA: Sì, amen!



(Escono Rosencrantz e Guildenstern. Entra POLONIO)


POLONIO: Gli ambasciatori della Norvegia, mio buon signore, sono gioiosamente ritornati.

RE: Tu sempre sei stato il padre di buone notizie.

POLONIO: Sì, mio signore? Siate certo, mio buon sovrano, ch'io debbo il mio omaggio, com'io debbo la mia anima, insieme al mio Dio e al mio grazioso re; ed io penso, o altrimenti questo mio cervello non segue la traccia dell'astuzia così sicuramente come era usato di fare, d'aver trovato la vera causa della pazzia d'Amleto.

RE: Oh, parla di questo; questo io bramo d'udire.

POLONIO: Date prima accesso agli ambasciatori; le mie notizie saran le frutta di quel gran festino.

RE: Tu stesso fa' loro onore, e introducili. (Esce Polonio) Egli mi dice, mia cara Gertrude, d'aver trovato l'origine e la fonte di tutta la malinconia di vostro figlio.

REGINA: Io sospetto che non sia altro che la principale: la morte di suo padre, e il nostro troppo affrettato matrimonio.

RE: Bene, noi lo vaglieremo.



(Entrano POLONIO, VOLTIMANDO e CORNELIO)


Benvenuti, miei buoni amici! Di', Voltimando, che notizie dal nostro fratello di Norvegia?

VOLTIMANDO: Il più schietto ricambio di saluti e di auguri. Alla nostra rimostranza egli mandò a reprimere le leve di suo nipote, che a lui parevano essere una preparazione contro il re di Polonia, ma, meglio considerando, egli veramente trovò ch'era contro Vostra Altezza, al che, afflitto che così la sua malattia, vecchiezza, ed impotenza, fossero falsamente ingannate, spedisce ordini d'arresto contro Fortebraccio: ai quali egli, in breve, obbedisce, riceve il rimprovero del re di Norvegia, e, finalmente, fa voto innanzi a suo zio di non più mai far la prova dell'armi contro Vostra Maestà. Per la qual cosa il vecchio re di Norvegia, sopraffatto dalla gioia, gli dà sessantamila corone d'annuo appannaggio, e la sua commissione d'impiegar quei soldati, così arruolati come per l'innanzi, contro il re di Polonia; con una supplica, qui più ampiamente dimostrata (dando un foglio) che possa piacervi di dar passaggio indisturbato attraverso i vostri domini per quest'impresa, con tali termini di sicurezza e di concessione quali son qui esposti.

RE: Ne siamo ben contenti, e quando avremo miglior agio per considerare, leggeremo, risponderemo, e penseremo a questa faccenda.

Frattanto noi vi ringraziamo per la vostra ben condotta fatica; andate al vostro riposo; a notte faremo festa insieme: molto benvenuti in patria!



(Escono gli Ambasciatori)


POLONIO: Questa faccenda è ben conchiusa... Mio sovrano, e signora, il dissertare che cosa la maestà debba essere, che cosa sia il dovere, perché il giorno sia giorno, la notte notte, e il tempo sia il tempo, non sarebbe altro che sciupare la notte, il giorno, il tempo.

Pertanto, poiché la brevità è l'anima del senno, e la prolissità le membra e gli ornamenti esteriori, io sarò breve. Il vostro nobile figliuolo è pazzo: pazzo io lo chiamo; perché, a definire la vera pazzia, che è se non esser pazzo e nient'altro? Ma lasciamo andare.

REGINA: Più sostanza, e meno arte.

POLONIO: Signora, io giuro ch'io non uso punta arte. Ch'egli sia pazzo è vero; è vero che sia un peccato; ed è un peccato che sia vero: una stolida figura; ma diamole l'addio, perché io non voglio usar punta arte. Pazzo concediamo dunque che sia; ed ora rimane che noi scopriamo la causa di questo effetto, o diciam piuttosto, la causa di questo difetto, poiché questo effetto difettivo vien da una causa: così la cosa rimane, e il rimanente è questo. Ponderate: io ho una figlia - la ho, finché ella è mia- che, per suo dovere e obbedienza, osservate, m'ha dato questo; ora ascoltate e deducete. (Legge) "Alla celestiale, e idolo dell'anima mia, la molto abbellita Ofelia". Questa è una cattiva espressione, una vile espressione; "abbellita" è una vile espressione, ma voi dovete udire. Ecco: (legge) "Nel suo eccellentemente bianco seno, queste, eccetera".

REGINA: E venuto questo da Amleto a lei?

POLONIO: Buona signora, attendete un poco; leggerò proprio come sta scritto. (Legge) "Nega degli astri il fuoco nega il raggio del vero nega del sole il moto, ma non negare l'amor mio sincero.

O cara Ofelia, io son maldestro a scrivere versi; io non ho l'arte di scandire i miei gemiti, ma ch'io t'ami ottimamente, o ottima, credilo.

Addio. Il sempre più tuo, carissima signora, finché questa macchina del corpo gli appartiene, Amleto". Questo in segno d'obbedienza m'ha la mia figliuola mostrato, e in soprappiù, ha le sue sollecitazioni, com'esse accaddero in tempo, in modo, e luogo, tutte date al mio orecchio.

RE: Ma come ella ha accolto il suo amore?

POLONIO: Che pensate voi di me?

RE: Che siete un uomo fedele e onorato.

POLONIO: Io vorrei pur mostrarmi tale. Ma che potreste voi pensare se, veduto che io ebbi svolazzare questo caldo amore, com'io me n'accorsi, bisogna che ve lo dica, prima che mia figlia me lo dicesse; che potreste voi, o la mia cara maestà, la vostra regina qui, pensare, s'io avessi fatto da scrittoio o da taccuino, o ammiccato al mio cuore, zitto e cheto, o considerato quest'amore con sguardo noncurante; che potreste voi pensare? No, io mi posi allora, senza preamboli, e alla mia damigella tenni questo discorso: "Monsignor Amleto è un principe, fuori della tua stella; questo non dev'essere"; e poi le prescrissi ch'ella dovesse appartarsi dalle sue visite, non ammettere alcun messaggero, non accogliere alcun pegno d'amore. Fatta la qual cosa, ella colse i frutti del mio consiglio; ed egli, respinto, per far breve la storia, cadde nella tristezza, poi nel digiuno, indi nella veglia, indi nella debolezza, indi nel vaneggiamento, e per questa declinazione nella pazzia nella quale egli ora delira, e per la quale tutti siam dolenti.

RE: Credete voi che sia questo?

REGINA: Potrebb'essere, assai probabilmente.

POLONIO: V'è mai stato un tempo, vorrei pur saperlo, ch'io abbia positivamente detto "è così", e poi la cosa stesse altrimenti?

RE: Non ch'io sappia.

POLONIO: Togliete questa da questo, se la cosa sta altrimenti. Se le circostanze mi guidano, io troverò dove la verità è nascosta, se pur fosse nascosta veramente al centro della terra.

RE: Come potremo provarlo, ancora?

POLONIO: Voi sapete, qualche volta egli cammina quattr'ore di seguito qui nella galleria.

RE: Così egli fa, infatti.

POLONIO: A un tal tempo io lascerò libera mia figlia per lui; mettiamoci allora voi ed io dietro un arazzo; osserviamo l'incontro; s'egli non l'ama, e non è uscito di senno per questo, fate ch'io non sia più il ministro d'uno Stato, ma badi a una fattoria e a barrocciai.

RE: Faremo la prova.



(Entra AMLETO leggendo un libro)


REGINA: Ma guardate come il povero infelice viene leggendo triste triste.

POLONIO: Via, io vi supplico, via entrambi. (Escono il Re, la Regina e il Seguito) Io l'abborderò subito, oh, datemi licenza. Come sta il mio buon principe Amleto?

AMLETO: Bene grazie a Dio.

POLONIO: Mi conoscete, mio signore?

AMLETO: Ottimamente, voi siete un pescivendolo.

POLONIO: Non io, mio signore.

AMLETO: Allora io vorrei che voi foste un così onest'uomo.

POLONIO: Onesto, mio signore?

AMLETO: Sì, messere; essere onesto, a come va questo mondo, è essere un uomo scelto fra diecimila.

POLONIO: Questo è verissimo, mio signore.

AMLETO: Poiché se il sole genera vermi in un cane morto, ch'è una carogna buona a baciarsi... Avete voi una figlia?

POLONIO: Sì, mio signore.

AMLETO: Non la fate camminare al sole: il concepire è una benedizione; ma siccome vostra figlia potrebbe concepire, amico, stateci attento.

POLONIO (a parte): Che ne dite? sempre batte sulla mia figliuola: e pure non mi ha riconosciuto dapprima; ha detto ch'ero un pescivendolo:

egli è assai innanzi, assai innanzi; e veramente nella mia gioventù io ebbi estreme sofferenze per amore; molto simili a queste. Gli parlerò di nuovo... Che cosa leggete, mio signore?

AMLETO: Parole, parole, parole.

POLONIO: Qual è la questione, mio signore?

AMLETO: Fra chi?

POLONIO: Voglio dire la questione di ciò che voi leggete, mio signore.

AMLETO: Calunnie, signore: perché questo briccone satirico dice qui che i vecchi han la barba grigia, che le loro facce sono rugose, i loro occhi spurgano una densa ambra, e gomma di susini, e ch'essi hanno una copiosa mancanza di senno, insieme con debolissimi lombi; tutte le quali cose, signore, benché io assai potentemente e possentemente le creda, pure non ritengo onesto metterle giù così; perché voi stesso, messere, sareste vecchio come me, se come un granchio poteste andare all'indietro.

POLONIO (a parte): Benché questa sia pazzia, pure c'è metodo in essa.

Volete venir via dall'aria, mio signore?

AMLETO: Nella mia tomba.

POLONIO: Infatti, questa è fuori dell'aria. (A parte) Come appropriate talvolta sono le sue risposte! una felicità che spesso la follia azzecca, che la ragione e la sanità non potrebbero così prosperamente partorire. Io lo lascerò, e subito diviserò il mezzo di far ch'egli e mia figlia s'incontrino. Mio onorato signore, io voglio molto umilmente prender congedo da voi.

AMLETO: Voi non potete, messere, prendere da me cosa alcuna da cui io più volentieri mi separi; fuorché la mia vita, fuorché la mia vita, fuorché la mia vita.

POLONIO: Statevi bene, mio signore.

AMLETO: Questi noiosi vecchi scemi!



(Entrano ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)


POLONIO: Voi andate a cercare il principe Amleto; eccolo là.

ROSENCRANTZ (a Polonio): Dio vi salvi, signore! (Esce Polonio)

GUILDENSTERN: Mio onorato signore!

ROSENCRANTZ: Mio carissimo signore!

AMLETO: Miei ottimi amici! Come stai, Guildenstern? Ah, Rosencrantz?

Buoni ragazzi. come state voi due?

ROSENCRANTZ: Come i comuni figli della terra.

GUILDENSTERN: Felici in quanto non siamo troppo felici; sulla berretta della Fortuna noi non siamo proprio il bottone.

AMLETO: Né le suole delle sue scarpe?

ROSENCRANTZ: Neppure, mio signore.

AMLETO: Allora voi le vivete intorno alla vita, o nel bel mezzo dei suoi favori?

GUILDENSTERN: In fede, siamo i suoi intimi.

AMLETO: Nelle segrete parti della Fortuna? oh, verissimo; ella è una bagascia. Che notizie?

ROSENCRANTZ: Nessuna, mio signore, se non che il mondo è diventato onesto.

AMLETO: Allora è vicino il finimondo; ma la vostra notizia non è vera.

Lasciatemi interrogare più particolarmente: che avete voi, miei buoni amici, meritato dalla Fortuna, ch'ella vi manda in prigione qui?

GUILDENSTERN: In prigione, mio signore?

AMLETO: La Danimarca è una prigione.

ROSENCRANTZ: Allora anche il mondo è una prigione.

AMLETO: Una vaga prigione, in cui vi sono molte celle, carceri, e segrete; e la Danimarca è una delle peggiori.

ROSENCRANTZ: Noi non la pensiamo così, signore.

AMLETO: Ebbene, allora non è una prigione per voi, perché non v'è nulla di buono o di cattivo, che il pensiero non renda tale; per me è una prigione.

ROSENCRANTZ: Ebbene, allora la vostra ambizione fa ch'ella lo sia; è troppo angusta per il vostro animo.

AMLETO: O Dio, io potrei esser confinato in un guscio e tenermi re dello spazio infinito, se non fosse che io ho cattivi sogni.

GUILDENSTERN: I quali sogni infatti sono ambizione; poiché la stessa sostanza degli ambiziosi non è che l'ombra d'un sogno.

AMLETO: I sogni stessi non sono che ombre.

ROSENCRANTZ: Veramente, ed io ritengo l'ambizione di qualità così aerea e leggera ch'ella non è che l'ombra d'un'ombra.

AMLETO: Allora i nostri mendicanti sono corpi e i nostri monarchi e dilatati eroi le ombre dei mendicanti. Vogliamo andare alla corte?

perché, per la mia fede, io non so ragionare.

ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN: Ci mettiamo al vostro fianco.

AMLETO: Nulla di simile; io non voglio porvi col rimanente dei miei servitori; poiché, per parlare a voi da uomo onesto, io son servito orribilmente. Ma, per star sulla carreggiata dell'amicizia, che fate voi ad Elsinore?

ROSENCRANTZ: Siam venuti a visitarvi, mio signore: nessun altro motivo.

AMLETO: Mendicante com'io sono, io son povero anche di grazie; ma io vi ringrazio; e certo, cari amici, le mie grazie son troppo care per mezzo soldo. Non foste mandati a chiamare? E' la vostra propria inclinazione? E' una libera visita? Via, comportatevi con me giustamente, andiamo, su, parlate.

GUILDENSTERN: Che dovremmo dire, mio signore?

AMLETO: Ebbene, qualunque cosa, eccetto che a proposito. Vi si mandò a chiamare; e c'è una sorta di confessione nei vostri sguardi, che la vostra modestia non ha arte bastevole a colorare: io so che il buon re e la regina v'han mandati a chiamare.

ROSENCRANTZ: A che scopo, mio signore?

AMLETO: Questo voi dovete insegnarmelo. Ma lasciate ch'io vi scongiuri, per i diritti della nostra solidarietà, per la consonanza della nostra giovinezza, per l'obbligazione del nostro sempre serbato amore, e per tutto quello che un miglior oratore potrebbe invocare di più caro da voi, siate franchi e diritti con me: siete stati mandati a chiamare o no?

ROSENCRANTZ (a Guildenstern): Che dite voi?

AMLETO (a parte): Ah sì? allora io tengo un occhio su di voi. Se voi m'amate, non indugiate.

GUILDENSTERN: Mio signore, noi fummo mandati a chiamare.

AMLETO: Io vi dirò perché, così la mia anticipazione preverrà la vostra confessione, e la vostra segretezza per il re e la regina non muterà penna. Io ho ultimamente, ma perché non so, perso tutta la mia allegria, abbandonato ogni costume d'esercizi; e per vero io son così aggravato nel mio umore che questa vaga fabbrica, la terra, sembra a me uno sterile promontorio, questo eccellentissimo padiglione, l'aria, badate, questa splendida volta del firmamento, questo tetto maestoso ageminato d'aurei fuochi, ebbene, non pare nulla a me se non una sozza e pestilente congregazione di vapori. Quale opera d'arte è un uomo, come nobile per la sua ragione, come infinito nelle sue facoltà nella forma e nel movimento, come preciso e ammirevole nell'azione, come simile a un angelo nell'intendimento, come simile a un dio: la bellezza del mondo; il paragone degli animali; e pure, per me, che è questa quintessenza di polvere? l'uomo non mi diletta, no, e la donna nemmeno, benché dal vostro sorriso voi sembriate dire così.

ROSENCRANTZ: Mio signore, non c'era nulla di simile nei miei pensieri.

AMLETO: Perché avete riso allora, quando io ho detto "l'uomo non mi diletta"?

ROSENCRANTZ: Pensando, mio signore, se voi non vi dilettate degli uomini, che trattenimento quaresimale gli attori riceveranno da voi; noi li oltrepassammo per istrada; e qui essi vengono, per offrirvi i loro servigi.

AMLETO: Colui che fa la parte del re sarà il benvenuto, sua maestà avrà tributo da me; il cavaliere avventuroso userà il suo fioretto e la sua targa; l'amoroso non sospirerà gratis, il caratterista finirà la sua parte in pace, il buffone farà ridere quelli che hanno i polmoni facili a scattare, e la dama dirà l'animo suo liberamente, o il verso sciolto ne zoppicherà. Che attori sono?

ROSENCRANTZ: Proprio quelli di cui voi eravate solito dilettarvi tanto, i tragici della città.

AMLETO: Come va che viaggiano? Lo starsene in città era meglio per essi, tanto per la reputazione che per il guadagno.

ROSENCRANTZ: Credo che il divieto che li ha colpiti sia una conseguenza della recente innovazione.

AMLETO: Godono essi della stima che godevano quando io ero nella città? hanno altrettanto seguito?

ROSENCRANTZ: No, davvero, non l'hanno.

AMLETO: Come accade? s'arrugginiscono?

ROSENCRANTZ: Anzi, i loro sforzi tengono il passo consueto, ma c'è, signore, una nidiata di fanciulli, piccoli falconcelli che strillano al culmine del diverbio e ricevon per questo i più tirannici applausi; questi sono ora alla moda, e tanto vituperano i teatri comuni (così li chiamano), che molti che portano stocco han paura delle penne d'oca, e appena osano recarvisi.

AMLETO: E che, sono fanciulli? chi li mantiene? come sono pagati? Non seguiteranno la professione se non fin quando possan cantare? non diranno essi poi, se dovessero essi stessi diventare attori comuni (com'è assai probabile, se i loro mezzi non sono migliori), che i loro scrittori fanno loro torto facendoli gridare contro il loro stesso avvenire?

ROSENCRANTZ: In fede, c'è stato un gran da fare da ambo le parti, e la nazione non ritiene sia peccato aizzarli alla controversia; per un certo tempo non vi fu offerta di danaro per un intreccio, a meno che il poeta e l'attore non facessero a pugni su questa quistione.

AMLETO: E' possibile?

GUILDENSTERN: Oh, c'è stato un grande arrabattarsi di cervelli.

AMLETO: I ragazzi la vincono?

ROSENCRANTZ: Sì, la vincono, mio signore; e si portan via Ercole, e la sua soma anche.

AMLETO: Non è molto strano, poiché mio zio è re di Danimarca, e quelli che gli avrebbero fatto le boccacce mentre mio padre era vivo, dan venti, quaranta, cinquanta, cento ducati l'uno, per i suoi ritratti in piccolo. Per il sangue, c'è qualcosa in ciò di più che naturale, se la filosofia potesse scoprirlo.



(Uno squillo di tromba)


GUILDENSTERN: Ecco gli attori.

AMLETO: Signori, voi siete i benvenuti ad Elsinore. Le vostre mani, via; gli accessori del benvenuto sono i bei modi e le cerimonie; lasciate ch'io le osservi con voi in questa guisa, affinché la mia accoglienza agli attori, la quale, io vi dico, deve avere una bella apparenza, non sembri più premurosa di quella che fo a voi. Voi siete benvenuti; ma il mio zio-padre e la mia zia-madre si ingannano.

GUILDENSTERN: In che, mio caro signore?

AMLETO: Io non sono pazzo che a nord-nord-ovest; quando il vento è dal sud, io conosco un falco da un airone.



(Entra POLONIO)


POLONIO: Sia bene a voi, signori!

AMLETO: Ascoltate, Guildenstern, e voi pure: ad ogni orecchio un uditore: quel gran bambolo che voi vedete là non è ancora uscito dalle fasce.

ROSENCRANTZ: Forse egli c'è entrato per la seconda volta; perché, dicono, un vecchio è due volte bambino.

AMLETO: Io voglio profetare: egli viene a dirmi degli attori; osservate... Voi dite giusto, signore; lunedì mattina: fu proprio allora.

POLONIO: Mio signore, io ho notizie da darvi.

AMLETO: Mio signore, io ho notizie da darvi. Quando Roscio era un attore in Roma...

POLONIO: Gli attori sono venuti qui, mio signore.

AMLETO: Evvia!

POLONIO: Sul mio onore...

AMLETO: "Ogni attor giunto è allora sul suo ciuco"...

POLONIO: I migliori attori del mondo, sia per tragedia, commedia, istoria, pastorale, pastorale comica, storico-pastorale, tragico- istoria, tragico-comico-istorico-pastorale, scena indivisibile, o poema illimitato. Seneca non può esser troppo pesante, né Plauto troppo leggero per il regolamento e la licenza... Questi sono i soli attori.

AMLETO: O Jefte, giudice d'Israele, quale tesoro avevi tu!

POLONIO: Quale tesoro aveva egli, mio signore?

AMLETO: Ebbene, Bella figlia avea soltanto ch'egli amava a dismisura.

POLONIO (a parte): Sempre su mia figlia.

AMLETO: Non ho io ragione, vecchio Jefte?

POLONIO: Se voi mi chiamate Jefte, mio signore, io ho una figlia ch'io amo a dismisura.

AMLETO: No questo non segue.

POLONIO: Che cosa segue allora, mio signore?

AMLETO: Ebbene, Come a sorte, lo sa Iddio, e poi, voi sapete.

Quello accadde che attendevasi...

La prima stanza della pia canzone vi mostrerà di più, poiché ecco che viene il mio intermezzo.



(Entrano gli Attori)


Voi siete benvenuti, signori benvenuti, tutti. Io sono contento di vedervi in buona salute: benvenuti, buoni amici. Oh, mio vecchio amico! Ebbene, la tua faccia s'è ornata d'una frangia dall'ultima volta ch'io t'ho veduto; vieni tu a tirarmi per la barba in Danimarca?

Come, mia giovane donna e signora! Per la Madonna, la vostra signoria è più vicina al cielo, rispetto a quando io la vidi l'ultima volta, dell'altezza d'una pianella di Spagna. Pregate Dio, che la vostra voce, come una moneta d'oro fuori corso, non sia fessa dentro il cordone. Signori, voi siete tutti benvenuti. Noi ci verremo diritti come falconieri francesi, getteremo per qualunque cosa vediamo:

vogliamo un discorso subito; via, dateci un saggio della vostra arte; via, un discorso appassionato.

PRIMO ATTORE: Qual discorso, mio buon signore?

AMLETO: Io t'udii una volta declamarmi un discorso, ma non fu mai recitato sulla scena, o, se mai, non più d'una volta; perché il dramma, ricordo, non piacque alla moltitudine, era caviale pel volgo; ma era (secondo che l'intesi io, e altri, il cui giudizio in tali materie aveva assai maggior grido del mio), un dramma eccellente, ben distribuito nelle scene, esposto con tanta modestia quanto artificio.

Ricordo che uno disse che non c'era nulla di piccante nei versi, per far la materia saporosa, né cosa alcuna nel fraseggiare che potesse accusare l'autore di affettazione; ma lo chiamò un metodo pulito, tanto sano quanto dolce, e più decoroso assai che raffinato. Un discorso in esso io soprattutto amavo, era il racconto d'Enea a Didone; e quella parte specialmente, dov'egli parla dell'eccidio di Priamo. Se vive nella vostra memoria, cominciate a questo verso:

vediamo, vediamo:

"Lo scabro Pirro come tigre Ircana..." non è così; comincia con Pirro:

"Lo scabro Pirro, ch'avea l'armi negre come il suo intento, simili alla notte, mentr'era còrco nel fatal cavallo, l'orrenda e nera tinta or ha imbrattato di più truce livrea; da capo a piedi tutto è vermiglio, è l'orrido suo addobbo sangue di padri, madri, figlie, figli, cotto e incrostato dalle arsive strade che all'eccidio del lor signore prestano cruda e dannata luce. Cosi, spesso dell'accigliato sangue, ed arrostito d'ira e di fiamma, due piròpi gli occhi, l'infernal Pirro il veglio Priamo cerca ".

Così, seguitate voi.

POLONIO: Innanzi a Dio, mio signore, ben recitato, con buon accento e discernimento.

PRIMO ATTORE: "Ecco, ei lo trova che dà vani colpi ai Greci; giace la sua spada antica ribelle al braccio suo, là dove cade, restìa al comando: in disugual tenzone Pirro a Priamo s'avventa: nella rabbia colpisce a vuoto, ma pel soffio e il vento dell'empia spada lo spossato padre procombe. Allor, come sentisse il colpo l'esanime Ilio la fiammante cima china alla base, e con orrendo schianto di Pirro fa prigion l'orecchio. Il ferro sul latteo capo al venerando Priamo già declinante, par nell'aria figgersi; e Pirro sta qual dipinto tiranno e, il suo volere e il fin posti in non cale nulla fa.

Ma come spesso, innanzi a un temporale, tacciono i cieli, immote stan le nubi, e muti i venti, e l'orbe sottostante par morto; ed ecco il tuono spaventoso squarcia l'aria; così, dopo la pausa, la ridesta Vendetta incita Pirro; né mai cadder martelli di Ciclopi sull'usbergo di Marte, eterna tempra, con men rimorso, che il cruento ferro cade su Priamo.

Via bagascia Fortuna! O iddii, voi tutti, toglietele il potere in pien consesso, spezzate i raggi e i cerchi alla sua ruota, e pel clivo del cielo il tondo mozzo giù lanciate, che ròtoli ai demoni!".

POLONIO: Questo è troppo lungo.

AMLETO: Andrà dal barbiere, insieme con la vostra barba. Di grazia, continua, egli vuole una farsa, o una novella salace, o altrimenti dorme: continua, vieni ad Ecuba.

PRIMO ATTORE: "Oh, al veder la regina imbacuccata...".

AMLETO: La "regina imbacuccata"?

POLONIO: Questa è buona: "regina imbacuccata" va bene.

PRIMO ATTORE: "... correr scalza qua e là, con cieco pianto minacciando le fiamme, un cencio in capo ov'era un diadema, e come veste intorno ai fianchi affaticati e scarni una coltre raccolta nel trambusto...

Chi, ciò vedendo, reo di tradimento non avrebbe il poter della Fortuna detto, con lingua nel veleno intinta?

Ma se gli stessi iddii l'avesser vista mirar di Pirro l'esecrabil gioco nel tagliuzzar le membra del suo sposo, il subito ululato ch'ella fece (se mai da umane cose essi son tocchi) inumidito avrebbe gli occhi ardenti del cielo ed a pietà mossi gli dèi".

POLONIO: Vedete, se non ha cambiato colore e ha le lagrime agli occhi.

Di grazia, non più. AMLETO: Sta bene; io ti farò presto recitare quel che rimane di questo. Mio buon signore, volete vedere che gli attori sian bene alloggiati? Udite, fate ch'essi siano trattati bene, poiché sono i compendi e le brevi cronache del tempo; dopo la vostra morte sarebbe meglio per voi avere un cattivo epitaffio che la loro mala voce finché vivete.

POLONIO: Mio signore, io li tratterò secondo il loro merito.

AMLETO: Cospetto di Dio, compare, molto meglio! Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alla frusta? Trattateli secondo il vostro proprio onore e la vostra dignità; quanto meno essi meritano, tanto maggiore è il pregio della vostra generosità.

Conduceteli dentro.

POLONIO: Venite, signori.

AMLETO: Seguitelo, amici: noi vogliamo udire un dramma domani. (Esce Polonio, con tutti gli Attori, fuor che il Primo) Ascoltami, vecchio amico; puoi tu recitare l'"Assassinio di Gonzago"?

PRIMO ATTORE: Sì, mio signore.

AMLETO: Noi lo vogliamo domani sera. Voi potreste, al bisogno, studiare un discorso d'un dodici o sedici versi, ch'io metterei giù e inserirei in esso, non potreste?

PRIMO ATTORE: Sì, mio signore AMLETO: Benissimo. Seguite quel signore; e state attento a non canzonarlo. (Esce il Primo Attore) Miei buoni amici, io vi lascerò fino a sera, voi siete i benvenuti ad Elsinore.

ROSENCRANTZ: Mio buon signore!

AMLETO: Sì, dunque, Dio sia con voi! (Escono Rosencrantz e Guildenstern) Ora son solo. Oh, che furfante e bifolco son io! Non è mostruoso che quest'attore qui, solo in una finzione, in una passione immaginaria, possa forzare la sua anima così al suo proprio concetto, che per opera di quella tutto il suo volto impallidisca; lagrime ne' suoi occhi, smarrimento nel suo aspetto, una rotta voce, e tutto il suo contegno rispondente nei modi al suo concetto? E tutto per nulla!

Per Ecuba! Che cosa è Ecuba per lui, o egli per Ecuba? ch'egli debba piangere per lei? Che farebbe egli se avesse il motivo e l'incentivo che ho io alla passione? Inonderebbe la scena di lagrime, e spaccherebbe l'orecchio del pubblico con orrendo discorso, farebbe impazzire i colpevoli e sbigottire gl'innocenti, confonderebbe gli ignoranti e lascerebbe attonite davvero le stesse facoltà degli occhi e degli orecchi. Pur io, ottuso briccone limaccioso, vo vagolando, come un che viva nel mondo della luna, non compreso della mia causa, e non so dir nulla; no, nemmeno per un re, sulla cui proprietà e sulla cui preziosissima vita fu compiuto un dannato misfatto. Sono io un vile? chi mi chiama furfante? mi spacca la testa? mi strappa la barba, e me la butta in faccia? mi tira per il naso? mi dà la mentita per la gola, sin giù ai polmoni? chi mi fa questo? Ah! Per le piaghe di Cristo, io lo soffrirei, perché bisogna bene ch'io abbia fegato di colomba, e manchi di fiele per render amaro l'insulto: o prima d'ora io avrei ingrassato tutti gli avvoltoi dell'aria coi resti di questo ribaldo; sanguinario, osceno furfante! spietato, perfido, lussurioso, snaturato furfante! O Vendetta! Ebbene, che asino son io! Bella prodezza, che io, figlio d'un caro padre assassinato, spinto a vendicarmi dal cielo e dall'inferno, debba, come una puttana, scaricarmi l'anima con le parole e darmi a bestemmiare, come una vera baldracca, un bagascione! Vergogna! poh! Al lavoro, mio cervello! Hem!

io ho udito che persone colpevoli, assistendo a un dramma, sono state, per lo stesso artificio della scena, colpite così fino all'anima che subito han proclamato le loro malefatte; perché l'assassinio, benché non abbia lingua, parla con miracolosissimo organo. Io farò recitare a questi attori qualcosa di simile all'assassinio di mio padre innanzi a mio zio; osserverò il suo aspetto; lo saggerò sul vivo; se ha solo un fremito, io so quel che debbo fare. Lo spirito ch'io ho veduto potrebbe essere un diavolo, e il diavolo ha potere d'assumere una piacevole forma, sì, e forse per la mia debolezza e per la mia malinconia, com'egli è potentissimo su tali spiriti, m'inganna per dannarmi. Avrò motivi più rilevanti di questo. Il dramma è la cosa in cui io accalappierò la coscienza del re.

(Esce)






ATTO TERZO



SCENA PRIMA - Una stanza nel Castello

(Entrano il RE, la REGINA, POLONIO, OFELIA, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)


RE: E non potete voi, per nessuna via indiretta, cavar da lui perché egli affetti questo smarrimento, che irrita così aspramente i suoi giorni tranquilli con una turbolenta e pericolosa follia?

ROSENCRANTZ: Egli confessa di sentirsi dissennato, ma per qual causa non vuol dire in alcun modo.

GUILDENSTERN: Né lo troviamo noi disposto a lasciarsi sondare, ma, con un'astuta pazzia, si tien sulle sue, quando noi vorremmo indurlo a qualche confessione del suo vero stato.

REGINA: Vi ha egli accolti bene?

ROSENCRANTZ: Proprio da gentiluomo.

GUILDENSTERN: Ma assai forzando la sua inclinazione.

ROSENCRANTZ: Avaro di domande, ma alle nostre richieste liberalissimo nel rispondere.

REGINA: Lo avete voi allettato a qualche passatempo?

ROSENCRANTZ: Signora, ci è accaduto di sopravanzare per istrada certi attori; di questi noi gli abbiam parlato, e in lui è apparsa una certa gioia nell'udirne; essi sono qui, alla corte, e, com'io penso, han già l'ordine di recitare stasera al suo cospetto.

POLONIO: E' verissimo; ed egli mi ha chiesto di supplicare le Vostre Maestà di udire e vedere la cosa.

RE: Con tutto il cuore; e mi fa assai piacere d'udire ch'egli è così inclinato. Buoni signori, continuate ad aguzzarlo, e spingete il suo proposito verso questi diletti.

ROSENCRANTZ: Noi lo faremo, mio signore.



(Escono Rosencrantz e Guildenstern)


RE: Dolce Gertrude, lasciateci anche voi; perché abbiamo segretamente mandato a chiamar qui Amleto, sicché egli, come fosse per accidente, possa qui imbattersi in Ofelia. Il padre di lei, ed io stesso, legittime spie, ci collocheremo così che, vedendo non veduti, possiamo liberamente giudicare del loro incontro, e apprender da soli, secondo ch'egli si comporta, se è per l'afflizione del suo amore, o no, che così egli soffre.

REGINA: Vi obbedirò. E quanto a voi, Ofelia, io m'auguro che le vostre egregie bellezze siano la felice causa della stravaganza d'Amleto; così potrò sperare che le vostre virtù lo riconducano a' suoi modi usati, per l'onore di tutti e due voi.

OFELIA: Signora, io desidero che così sia.



(Esce la Regina)


POLONIO: Ofelia, voi camminate qui. Vostra Grazia, se vi piaccia, noi prenderemo posto. (A Ofelia) Leggete in questo libro, che il far mostra d'un tale esercizio possa dar colore alla vostra solitudine.

Noi siamo spesso da biasimare in ciò (è troppo provato), che col volto della devozione e con gesti di pietà inzuccheriamo lo stesso demonio.

RE (a parte): Oh, è troppo vero! che cocente sferzata di questo discorso alla mia coscienza! La gota della meretrice, abbellita col liscio, non è più brutta rispetto alla cosa che l'aiuta che non sia la mia azione rispetto alla mia dipinta parola. O greve peso!

POLONIO: Io l'odo venire, ritiriamoci, mio signore.



(Escono il Re e Polonio. Entra AMLETO)


AMLETO: Essere o non essere: questo è il problema; s'egli sia più nobile soffrire nell'animo le frombole e i dardi dell'oltraggiosa Fortuna, o prender armi contro un mare di guai, e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire... nient'altro; e con un sonno dire che noi poniam fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne; è un epilogo da desiderarsi devotamente, morire e dormire! Dormire, forse sognare, sì, lì è l'intoppo; perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio, deve farci riflettere; questa è la considerazione che dà alla sventura una sì lunga vita; perché chi sopporterebbe le sferzate e gl'insulti del mondo, l'ingiustizia dell'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gli spasimi dell'amore disprezzato, l'indugio delle leggi, l'insolenza di chi è investito d'una carica, e gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome d'azione... Adagio voi ora!

La vaga Ofelia! Ninfa, nelle tue orazioni siano ricordati tutti i miei peccati.

OFELIA: Mio buon signore, come è stato Vostro Onore tutti questi giorni?

AMLETO: Umilmente vi ringrazio; bene, bene, bene.

OFELIA: Mio signore, io ho certi vostri ricordi, ch'io ho da molto desiderato di restituire; io ve ne prego ora, accoglieteli.

AMLETO: No, non io; io non vi ho mai dato nulla.

OFELIA: Mio onorato signore, voi sapete benissimo che me li avete dati; e con essi, parole composte di così dolci fiati che resero questi oggetti più preziosi; perduto il loro profumo, riprendeteli; perché per l'animo nobile i ricchi doni divengon poveri quando i donatori si mostrano crudeli. Ecco, mio signore.

AMLETO: Ah, ah! siete voi onesta?

OFELIA: Mio signore?

AMLETO: Siete voi bella?

OFELIA: Che vuol dire Vostra Signoria?

AMLETO: Che se voi siete onesta e bella, la vostra onestà non dovrebbe ammettere alcun discorso con la vostra bellezza.

OFELIA: Potrebbe la Bellezza, mio signore, aver miglior commercio che con l'Onestà?

AMLETO: Sì, veramente; perché il potere della Bellezza prima trasmuterà l'Onestà da ciò che ella è in una ruffiana, che la forza dell'onestà possa ridurre la Bellezza alla sua somiglianza; questo era una volta un paradosso, ma ora i tempi ne danno la prova. Io vi amavo una volta.

OFELIA: Infatti, mio signore, voi me lo faceste credere.

AMLETO: Non avreste dovuto credermi, perché la virtù non può innestarsi sul nostro vecchio ceppo senza che di questo serbiamo il gusto, io non v'amavo.

OFELIA: Io son rimasta tanto più ingannata.

AMLETO: Vattene in un convento, perché vorresti esser generatrice di peccatori? Io stesso sono discretamente onesto, ma pure potrei accusarmi di tali cose che sarebbe meglio che mia madre non m'avesse partorito. Sono oltremodo orgoglioso, vendicativo, ambizioso; con più colpe ai miei cenni ch'io non abbia pensieri in cui metterle, immaginazione da dar forma ad esse, o tempo per attuarle. Che ci sta a fare la gente come me, a strisciare fra il cielo e la terra? Noi siamo tutti furfanti matricolati; non credere a nessuno di noi. Va' per la tua strada, in un convento. Dov'è vostro padre?

OFELIA: A casa, mio signore.

AMLETO: Fate che le porte sian chiuse su di lui, ch'egli non possa fare lo sciocco altrove che a casa sua. Addio.

OFELIA: Oh, aiutatelo, voi clementi cieli!

AMLETO: Se tu ti mariti, io ti darò questo flagello per dote: sii tu casta come il ghiaccio, pura come la neve, tu non sfuggirai alla calunnia. Vattene in un convento, va', addio. O se vuoi per forza maritarti, sposa uno sciocco; perché gli uomini savi sanno abbastanza che mostri voi fate di loro. In un convento, va'; e presto, anche.

Addio.

OFELIA: Celesti potenze, risanatelo!

AMLETO: Io ho udito anche dei vostri belletti, parecchio; Dio v'ha dato una faccia e voi ve ne fate un'altra; voi saltellate e molleggiate, voi scilinguate, voi date nomignoli alle creature di Dio e vorreste far passare per ignoranza la vostra lascivia. Va', io non voglio parlarne più, questo mi ha fatto impazzire. Io dico che non avremo più matrimoni; quelli che sono sposati già, tutti meno uno, vivranno, gli altri staranno come sono. In convento, va'.



(Esce)


OFELIA: Oh, quale nobile animo è qui sconvolto! l'occhio, la lingua, la spada del cortigiano, del soldato, del dotto, la speranza e la rosa del buon governo, lo specchio della moda, e il modello delle creanze, osservato da quanti fanno osservanza, del tutto, del tutto caduto! Ed io la più afflitta e infelice delle donne, che succhiai il miele delle sue musicali promesse, ora vedo quella nobile e veramente sovrana ragione, stonata e stridula come dolci campane sbatacchiate; quella impareggiata forma e figura di fiorente giovinezza annichilita dalla follia; oh, misera me, che ho visto quel che ho visto, che vedo quello che vedo!



(Esce)

(Rientrano il RE e POLONIO)


RE: Amore? I suoi affetti non son volti da quella parte; né quel ch'egli ha detto, benché difettasse un poco di forma, era da pazzo.

C'è qualche cosa nella sua anima, su cui la sua malinconia siede a covare; ed io dubito che la covata che se ne schiuderà sarà qualche pericolo; a prevenire il quale, io ho con rapida decisione così disposto: egli andrà sollecitamente in Inghilterra per domandare il nostro tributo negletto: forse i mari e i paesi differenti con gli svariati oggetti espelleranno questa cosa, che in qualche modo ha preso radice nel suo cuore; sulla quale il suo cervello sempre battendo lo fa così diverso da quel ch'egli soleva essere. Che ne pensate voi?

POLONIO: Sarà bene; ma tuttavia io credo che l'origine e il principio del suo affanno provengano da un amore negletto.



(Rientra OFELIA)


Ebbene, Ofelia? Non c'è bisogno che ci narriate che cosa ha detto il principe Amleto; noi l'abbiamo udito tutto. (Esce Ofelia) Mio signore, fate come a voi piace; ma, se voi lo ritenete opportuno, dopo il dramma, fate che la regina sua madre, da sola a solo, lo supplichi di svelare il suo affanno; fate ch'ella sia franca con lui; ed io sarò posto, se così vi piaccia, a portata d'orecchio di tutto il loro colloquio. Se ella non lo scopre, mandatelo in Inghilterra, o confinatelo dove la vostra saggezza crederà meglio.

RE: Così sarà: la pazzia nei grandi non deve lasciarsi non vigilata.



(Escono)






SCENA SECONDA - Una sala nel Castello

(Entrano AMLETO e tre degli Attori)


AMLETO: Dite il discorso, vi prego, come io ve l'ho recitato, quasi vi danzasse sulla lingua; ché se voi lo vociate, come fanno molti dei nostri attori, sarebbe per me tutt'uno che il pubblico banditore dicesse i miei versi. E non fendete troppo l'aria con la vostra mano, così; ma trattate tutto con discrezione; perché nel torrente stesso, nella tempesta e, com'io potrei dire, nel turbine della passione, voi dovete acquistare e generare una temperanza che dia ad essa morbidezza. Oh, m'offende fin nell'anima udire un truculento individuo imparruccato lacerare una passione a brandelli, ridurla in stracci per spaccare gli orecchi della platea, la quale, per la più parte, non comprende null'altro che inesplicabili pantomime e rumore; io farei frustare un tale individuo per aver sopravanzato Termagante; questo è un farla da Erode più di Erode stesso; di grazia, evitatelo.

PRIMO ATTORE: Me ne fo garante a Vostro Onore.

AMLETO: Non siate troppo blandi nemmeno, ma lasciate che il vostro discernimento vi sia maestro; accordate l'azione alla parola, la parola all'azione, con questo particolare accorgimento, che voi non passiate oltre i limiti della moderazione della natura; perché ogni cosa così strafatta è contraria allo scopo dell'arte drammatica, il cui fine, tanto agli inizi che ora, fu ed è di reggere, per così dire, lo specchio della natura; di mostrare alla virtù le sue proprie fattezze, allo scorno la sua immagine, e alla tempra e alla fisionomia stesse dell'epoca la loro forma ed impronta. Ora questo, esagerato, o stentato, benché faccia ridere l'inesperto, non può che affliggere l'uomo di giudizio; la censura del quale deve, nella vostra opinione, pesar più d'un intero teatro degli altri. Oh, ci sono attori ch'io ho visti recitare, e uditi lodare dagli altri e altamente, per non dir la cosa in maniera profana, i quali non avendo né l'accento di cristiani né il portamento di cristiani, di pagani, né d'uomini, si pavoneggiavano e muggivano così ch'io pensavo che qualcuno dei manovali della natura avesse fatto degli uomini, e non li avesse fatti bene, così abominevolmente essi imitavano l'umanità.

PRIMO ATTORE: Io spero che noi abbiamo riformato discretamente codesto tra di noi, signore.

AMLETO: Oh, riformatelo del tutto. E procurate che quelli che fan le parti dei buffoni non dicano più di quanto è scritto per loro; perché ce n'è di quelli che ridono essi stessi, per indurre una certa quantità di stupidi spettatori a rider pure, benché frattanto debba prestarsi attenzione a qualche battuta essenziale del dramma; questa è una birbonata e mostra un'assai pietosa ambizione nello sciocco che ne fa uso. Andate, preparatevi.



(Escono gli Attori. Entrano POLONIO, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)


Ebbene, mio signore! vuole il re ascoltare questo lavoro?

POLONIO: E la regina anche, e immediatamente.

AMLETO: Ordinate agli attori di affrettarsi.



(Esce POLONIO) Volete voi aiutarli a sbrigarsi


ROSENCRANTZ: e GUILDENSTERN: Sì, mio signore.



(Escono Rosencrantz e Guildenstern)


AMLETO: Ohé! Orazio!



(Entra ORAZIO)


ORAZIO: Eccomi, dolce signore, al vostro servizio.

AMLETO: Orazio, tu sei proprio l'uomo più equilibrato col quale mi sia mai accaduto d'aver commercio.

ORAZIO: Oh, mio caro signore...

AMLETO: No, non creder ch'io aduli; poiché quale avanzamento posso io sperare da te che non hai altra rendita che le doti del tuo spirito, per nutrirti e vestirti? Perché si dovrebbe adulare il povero? No, che la lingua inzuccherata lecchi lo stravagante fasto, e pieghi le proficue giunture del ginocchio dove il guadagno possa seguire alla piaggeria. M'intendi? Da quando la mia cara anima fu signora della sua scelta, e seppe tra gli uomini distinguere la sua elezione, ti ha suggellato per lei; perché tu sei stato come uno che, tutto soffrendo, di nulla soffre; un uomo che gli schiaffi e i premi della Fortuna hai presi con eguali grazie; e beati son quelli ne' quali le passioni e il giudizio sono così ben mescolati ch'essi non sono un flauto su cui il dito della Fortuna possa premere il tasto che le piace. Datemi l'uomo che non è schiavo della passione, ed io lo terrò nell'intimo del cuore, sì, nel cuor del mio cuore, come io fo di te. Ma già troppo di questo. Si darà un dramma stasera alla presenza del re: una scena s'avvicina alle circostanze che io t'ho narrate della morte di mio padre: ti prego, quando vedi quell'atto in corso, proprio con tutto l'acume dell'anima tua osserva mio zio; se la sua colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto e le mie immaginazioni sono luride come la fucina di Vulcano.

Scrutalo attentamente, perché io i miei occhi gli ficcherò sulla faccia, e dopo metteremo insieme le nostre osservazioni, per dar giudizio del suo aspetto.

ORAZIO: Bene, mio signore; se egli sottrae qualche cosa mentre questo dramma si rappresenta, e non si fa discoprire, io pagherò per il furto.



(Trombe e temburi. Entrano il RE, la REGINA, OFELIA, POLONIO, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, e altri Signori del seguito, con la Guardia, che reca le torce)


AMLETO: Vengono per il dramma; io debbo fare il pazzo: procuratevi un posto.

RE: Come vive il nostro nipote Amleto?

AMLETO: Ottimamente, in fede; del piatto del camaleonte: io mangio l'aria, infarcita di promesse; non potete nutrire i capponi così.

RE: Io non cavo nulla da questa risposta, Amleto; queste parole non appartengono a me.

AMLETO: No, e neanche a me. (A Polonio) Ora, mio signore, voi recitaste una volta all'Università, voi dite?

POLONIO: Sicuro, mio signore, e fui giudicato un buon attore.

AMLETO: E che cosa rappresentaste?

POLONIO: Io rappresentai Giulio Cesare, io fui ucciso in Capitolio; Bruto m'uccise.

AMLETO: Fu un'azione brutale da parte sua uccidere là un sì capital pecorone. Sono pronti gli attori?

ROSENCRANTZ: Sì, mio signore; essi aspettano il vostro permesso.

REGINA: Vieni qui, mio caro Amleto, siedi accanto a me.

AMLETO: No, buona madre, qui c'è metallo più attraente.

POLONIO (al Re): Oh, oh! osservate questo!

AMLETO: Signora, posso giacervi in grembo?

OFELIA: No, mio signore.

AMLETO: Voglio dire, col capo sul vostro grembo?

OFELIA: Sì. mio signore AMLETO: Pensate ch'io volessi dire cosa da ribotta?

OFELIA: Io non penso nulla, mio signore.

AMLETO: Questa è una bella idea a star fra le gambe delle fanciulle.

OFELIA: Quale, mio signore?

AMLETO: Nulla.

OTELLO: Voi siete allegro, mio signore.

AMLETO: Chi, io?

OFELIA: Sì, mio signore.

AMLETO: O Dio, il vostro solo autore di farse. Che si dovrebbe fare se non stare allegri? perché, guardate come appare lieta mia madre, e mio padre è morto soltanto da due ore.

OFELIA: No, son due volte due mesi, mio signore.

AMLETO: Tanto? E allora, che il diavolo si vesta di nero, perché io voglio farmi un abito di zibellino. O cieli! morire due mesi or sono, e non esser dimenticato ancora? Allora c'è speranza che la memoria d'un grand'uomo possa sopravvivere alla sua vita un mezzo anno; ma, per la Madonna. egli deve costruir chiese allora, o altrimenti egli soffrirà che a lui non si pensi, come il cavalluccio di legno, il cui epitaffio è "Ohimè! ohimè! scordato è il cavalluccio". (Suonano le trombe)



PANTOMIMA
(Entrano un Re e una Regina, con dimostrazioni d'affetto; la Regina abbracciando lui, ed egli lei. Ella s'inginocchia e fa mostra di dichiararglisi devota. Egli la solleva, e reclina il capo sul collo di lei. Egli si pone a giacere su una proda fiorita. Ella, vedendolo addormentato, lo lascia. Di lì a poco entra un altro uomo, gli toglie la corona, la bacia, versa il veleno nelle orecchie del dormiente, lo lascia. La Regina ritorna, trova il Re morto, e fa una mimica appassionata. L'avvelenatore, con tre o quattro comparse, rientra e sembra condolersi con lei. Il cadavere vien portato via.
L'avvelenatore corteggia la Regina con doni, ella, aspra per un po', accetta infine il suo amore). (Escono)


OFELIA: Che significa questo, mio signore?

AMLETO: Diamine, questo è un maleficio subdolo; significa malanno.

OFELIA: Forse questa pantomima rappresenta l'argomento del dramma.

AMLETO Lo sapremo da costui.



(Entra il Prologo)


Gli attori non sanno tenere il segreto.

OFELIA: Ci dirà egli che cosa significava questo spettacolo?

AMLETO: Sì, o qualsiasi spettacolo che voi gli mostrerete; se voi non avete vergogna di mostrare, egli non si vergognerà di dirvi che cosa significa.

OFELIA: Voi siete cattivo, voi siete cattivo: io voglio stare attenta al dramma.

PROLOGO: Per noi, per la tragedia vostra clemenza supplico, con pazienza uditeci!

AMLETO: E' un prologo o un motto d'anello?

OFELIA: E' breve, mio signore.

AMLETO: Come amore di donna.



(Entrano due Attori, un RE e una REGINA)


RE ATTORE: Ben trenta volte il carro di Febo è andato attorno al salso flutto di Nettuno e al rotondo suolo della Terra, e trenta dozzin di lune con splendore d'accatto intorno al mondo han fatto dodici volte trenta giri, da quando Amore i nostri cuori e Imene le nostre mani unirono mutuamente in santissimi vincoli.

REGINA ATTRICE: Altrettanti viaggi possano il sole e la luna farci ricontare prima che l'amore sia finito! Ma ahimè! voi siete stato così male in questi ultimi tempi, così remoto dalla letizia e dal vostro primiero stato, che io temo per voi. Pure, benché io tema, questo non deve punto sconfortarvi, mio signore; perché la paura e l'amore delle donne han questa misura, che son l'una e l'altro nulla, o in estremo grado. Ora, che cosa sia il mio amore, l'esperienza vi ha fatto sapere, e quale è il mio amore, tale è la mia paura; dove l'amore è grande, i minimi sospetti sono paura, dove le piccole paure si fan grandi un grande amore cresce.

RE ATTORE: In fede, io ti debbo lasciare, amore, e fra breve anche; le mie potenze operanti cessano di compiere le loro funzioni, e tu vivrai in questo vago mondo dopo di me, onorata, amata; e forse uno non meno buono per marito tu...

REGINA ATTRICE: Oh, in malora gli altri! Un tale amore dovrebbe per forza esser tradimento nel mio petto; in un secondo marito ch'io sia maledetta! Non sposa un secondo se non chi ha ucciso il primo.

AMLETO: (a parte) Assenzio, assenzio!

REGINA ATTRICE: I motivi che a un secondo matrimonio inducono sono vili riguardi d'interesse, ma non d'amore; una seconda volta io uccido il mio marito morto, quando un secondo marito mi bacia nel letto.

continua
 
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